Un nuovo farmaco in sperimentazione potrebbe (per la prima volta) potenziare le funzioni cognitive e di memoria delle persone con trisomia 21. Facilitandone così autonomia e possibilità di lavoro.
Anni fa aveva fatto un certo scalpore la proposta di correggere chirurgicamente gli occhi dei bambini Down per farli sembrare «più normali»: rotondi anzichè a mandorla. Qualcuno lo fece, più che altro nei paesi anglossassoni, ma la «moda» non ebbe granché seguito. Si trattava di discutibile estetica, e nient’altro. E se oggi, invece, ci fosse un farmaco in grado di potenziare le funzioni cognitive nella trisomia 21?
Ecco, questa sarebbe senza dubbio una svolta, perché alla sindrome di Down (in Italia, 40 mila persone, di cui il 60 per cento adulti) si accompagna sempre una compromissione intellettiva che riduce le possibilità di trovare un lavoro, di inserirsi nella società, di essere il più possibile autonomi (uno dei crucci maggiori dei genitori: «e quando noi non ci saremo più?»). Una molecola simile è in sperimentazione clinica, e potrebbe davvero migliorare la qualità di vita dei bambini che ogni anno vengono al mondo con una terza copia del cromosoma 21: in Italia, oggi, ne nascono 23 ogni 10 mila parti e, sorpresa, sono più che in passato (nel 1990 erano 16 ogni 10 mila nascite) nonostante l’amniocentesi dia la possibilità di saperlo prima. Il motivo di questo aumento? La sindrome di Down fa meno paura, oggi le cure consentono una vita lunga e di discreta qualità, c’è un minore stigma sociale, quindi si abortisce meno.
Torniamo alla nostra molecola (la AEF0217), e facciamoci spiegare di che si tratta da Filippo Caraci, professore di Farmacologia all’Università di Catania e e responsabile dell’Uor di Neurofarmacologia dell’IRCCS Oasi di Troina. «Al momento non esistono cure per i deficit cognitivi delle persone Down, sarebbe il primo trattamento farmacologico. Si tratta di una nuova classe di molecole chiamate SSi, ossia “signaling specific inhibitors”, scoperta dal gruppo del professor Pier Vincenzo Piazza, di Aelis Farma, e sviluppata partendo da una sostanza endogena: il pregnenolone, prodotto dal cervello in risposta a elevate concentrazioni di cannabinoidi. Nella sindrome di Down è stata osservata proprio un’iperattività del sistema cannabinoide».
Nei test preclinici questi farmaci si sono dimostrati in grado di bloccare in modo mirato una catena intracellulare legata al deficit nella memoria di lavoro. Si è visto che il farmaco, nei modelli animali, funziona benissimo a dosi molto basse. In altre parole: somministrato a topi in cui è stata riprodotta la sindrome di Down (nel loro caso il cromosoma implicato è il 15), si è visto un recupero completo del deficit cognitivo: messi di fronte a labirinti o a compiti complessi, se la cavavano senza difficoltà. Buon per i topini. E negli umani? «In questi mesi, grazie al Progetto europeo Icod di cui facciamo parte, sono partiti gli studi di fase 1, di farmacocinetica e tollerabilità, nei volontari sani. E nel 2023-2024 la molecola verrà studiata in fase II in almeno 130 persone con sindrome di Down, per i dati di efficacia clinica» risponde il neurofarmacologo.
Intendiamoci: non è un a pillola miracolo che di colpo fa diventare «più intelligenti» (come nel celebre e straziante romanzo Fiori per Algernon, in cui il protagonista, un disabile mentale, diventa un genio grazie a una spregiudica operazione chirurgica, salvo poi tornare gradualmente come prima). Ma consentirà di migliorare, se il progetto Icod avrà successo, funzioni esecutive, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva. «Significa riuscire a migliorare l’apprendimento, concentrarsi, pianificare azioni, trattenere meglio con la memoria di lavoro nuove informazioni» conclude Caraci.
Un trattamento farmacologico efficace potrebbe fare la differenza tra non riuscire a lavorare ed entrare a far parte del mondo produttivo. «Al momento, in Italia, è inserito nel lavoro il 13 per cento degli adulti con trisomia» afferma Anna Contardi, coordinatrice dell’Aipd nazionale (Associazione italiana person Down). «Negli altri Paesi il dato è inferiore: in Germania è l’8 per cento, in Spagna il 7. E all’estero lavorano più che altro in ambienti protetti, laboratori per disabilità delle aziende, ditte di assemblaggio… In Italia c’è una cultura di maggiore inclusione. Noi come associazione, per esempio, abbiamo seguito 120 persone Down che ora hanno un contratto a tempo indeterminato in aziende “normali”, come ristoranti, alberghi, ditte di grande distribuzione. E contiamo di concludere progetti analoghi con Nespresso e Decathlon».
Come sempre in Italia, le differenze tra regioni ci sono. La sensibilità aziendale a questo problema riguarda quasi esclusivamente il Nord, in molti territori l’offerta di servizi di assistenza e accompagnamento è ancora carente, se non nulla. «Ci aspettiamo che la nuova molecola, quando sarà disponibile, possa aumentare le chance di trovare un’occupazione per queste persone, possa aiutarli nell’autonomia, renderli in grado di gestire il denaro, avere migliori relazioni sociali anche con estranei». E quella piccola correzione agli occhi, chiesta da genitori che volevano dare ai figli nati con un cromosoma in più una vita un po’ meno discriminata, era davvero così negativa? «Noi siamo sempre stati contrari, per la verità» risponde Contardi. «E lo abbiamo detto anche alla Commissione di bioetica che ci aveva consultato. Un conto se è la persona stessa a chiederlo, un conto farlo sui bambini decidendo per loro. E poi ci sono prove della sua non efficacia, ossia non incide sull’accettazione sociale. Prenda i bambini autistici, in genere sono molto belli, ma non per questo vengono accettati bene dagli altri. La fisionomia delle persone Down è particolare, segnala subito un’identità. E, paradossalmente, facilita i rapporti con le altre persone e, nelle aziende, con i colleghi. È come se dicessero: “Io sono così, per questa ragione”. E dall’altra parte molto spesso scatta un’immediata comprensione».