Home » Parkinson. L’impennata dei casi

Parkinson. L’impennata dei casi

Parkinson. L’impennata dei casi

È la patologia neurodegenerativa in più rapido incremento in tutto il mondo, Italia compresa. Alle origini della sua diffusione, diverse cause (inquinamento, Covid in forma grave, alcune sostanze tossiche…). Oggi la terapia, oltre ai farmaci, punta su elettrodi cerebrali. E la svolta arriverà con «marcatori» capaci di individuarla quando ancora non dà sintomi.


I dati sono preoccupanti. Numero dei pazienti con malattia di Parkinson quasi raddoppiato negli ultimi 10 anni e picco importante atteso per il prossimo decennio. È la patologia neurodegenerativa in più rapida crescita in tutto il pianeta: colpisce circa dieci milioni di persone nel mondo, di cui oltre 300 mila in Italia.

«Ci aspettiamo che nei prossimi 20 anni il Parkinson si avvicini in termini epidemiologici ai numeri dell’Alzheimer. Già oggi, nel nostro Paese, si ammalano circa seimila persone all’anno» spiega Paolo Calabresi, direttore dell’Unità operativa complessa di Neurologia dell’IRCCS Policlinico Gemelli di Roma. «È una patologia età-dipendente, quindi il fatto che grazie alle strategie preventive generali la popolazione abbia un’aspettativa di vita più lunga ne favorisce l’incremento. Inoltre, fattori ambientali quali l’inquinamento possono giocare un ruolo nella sua genesi».

Il Parkinson provoca la morte delle cellule nervose nelle aree del cervello che controllano i movimenti, provocando tremore, rigidità e lentezza. Conseguenze cui si spesso aggiungono, nelle fasi tardive, movimenti involontari anormali (le discinesie) e deficit cognitivo. I costi per la sanità sono alti: per ogni paziente il Sistema sanitario nazionale spende fra 3.500 e 4.800 euro l’anno. E per il singolo malato, la cifra si aggira fra 1.500 e 2.700 euro.

Alle cause note sulla sua insorgenza, occorrerà nei prossimi anni aggiungere i possibili danni provocati dalla forma grave del Covid-19. «Sono stati condotti studi internazionali che hanno correlato le infezioni e le pandemie a un notevole aumento di casi» continua il professore. «A distanza di qualche anno dalla famosa Spagnola, la devastante influenza che colpì tutto il mondo nei primi anni del Novecento (facendo, secondo le stime, circa 50 milioni di vittime, ndr), si assistette per esempio a un picco di encefaliti che poi causarono la malattia di Parkinson».

Oggi, alcuni epidemiologi hanno lanciato un «warning» affermando che dopo la Sars, ma soprattutto dopo il Covid, potrebbe verificarsi un analogo incremento. Questo perché nello sviluppo della patologia, almeno nella fase iniziale, i meccanismi infiammatori giocano un ruolo importante. Soprattutto nei pazienti che sono andati incontro alle «tempeste citochiniche» causate dal virus.

Sul Parkinson gravano spesso anche fattori genetici: e proprio da questa branca della medicina arrivano speranze di diagnosi precoce e cura: «Gli studi che si sono concentrati sull’identificazione dei fattori di rischio genetici» spiega Alessio Di Fonzo, neurologo e ricercatore presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda di Milano «ci hanno portato a capire come frenare il meccanismo molecolare patologico. Per quanto riguarda i casi legati alle mutazioni del gene GBA1, si è visto che la proteina coinvolta è conformata male: si è indagato quali molecole potessero ridarle la forma originaria, dato che è un trigger per la degenerazione dei neuroni che producono la dopamina».

Alcune molecole si sono dimostrate promettenti: chiamate «chaperon», si legano alle proteine mal conformate per cercare di ridare loro la forma originaria e la normale localizzazione nella cellula. Una di queste, l’ambroxolo, ha dato risultati incoraggianti nei trial: nei centri di ricerca stanno partendo le sperimentazioni anche per altre «chaperon».

Alla base della forte crescita dei casi non va sottovalutato l’inquinamento. Un’indagine coreana di qualche tempo fa aveva notato una correlazione tra diossido di azoto e polveri sottili e aumento del rischio. «I fattori ambientali si studiano da anni» prosegue Di Fonzo. «In passato, si era visto che una sostanza tossica usata per tagliare le sostanze stupefacenti, chiamata MPTP, dava alle persone che l’assumevano una forma di Parkinson indotto. Anche diversi diserbanti possono portare a una sofferenza dei neuroni che producono dopamina nei modelli di laboratorio. Tuttavia, se gli agenti ambientali siano sufficienti a indurre il Parkinson non è ancora dimostrato. Lo scenario più verosimile sembra essere un mix tra predisposizione genetica ed esposizione a fattori inquinanti».

Di recente uno studio dell’Università di Rochester si è concentrato su un solvente, il tricloroetilene: le persone esposte a tale agente avrebbero un rischio molto più alto di sviluppare il Parkinson rispetto al resto della popolazione. Il tricloroetilene è invisibile, altamente volatile e ha applicazioni di tipo militare, medico, industriale; e può contaminare le falde acquifere. Tra i casi clinici esaminati dai ricercatori c’è stato quello di Brian Grant, ex giocatore di basket della Nba al quale nel 2008 fu diagnosticato il Parkinson a soli 36 anni.

Una complicazione nella lotta contro questa patologia è il fatto che tra l’insorgenza della neuro-degenerazione e la manifestazione clinica possono passare molti anni, perché i neuroni che producono il trasmettitore dopamina, bersaglio del Parkinson, hanno la capacità di compensare i danni. Quindi, i segni si manifestano quando già l’80 per cento di queste cellule cerebrali sono degenerate.

«Una delle grandi sfide del futuro» dice Calabresi «è avere marcatori biologici e clinici precoci che ci permettano di individuare quasi in una fase pre clinica – quando non ci sono ancora sintomi motori – i pazienti a rischio. Molte aziende farmaceutiche e anche istituzioni accademiche, come il nostro gruppo che studia la malattia di Parkinson al Gemelli, stanno cercando di caratterizzare nei pazienti il ruolo della alfa-sinucleina: proteina che ha la funzione fisiologica di regolare la comunicazione tra neurotrasmettitori».

Questa proteina, quando acquista una conformazione anomala, cioè una struttura tridimensionale alterata, diventa tossica; come se da «buona» diventasse di colpo «cattiva», bloccando la trasmissione sinaptica e interferendo con l’attività e la normale funzione cellulare dei neuroni. «Assieme ad altri centri» fa sapere Calabresi «stiamo provando un approccio di tipo immunologico, cercando di capire se anticorpi monoclonali diretti contro l’alfa-sinucleina anomala possano far regredire la malattia, cosa molto difficile, o almeno bloccarne la progressione».

Fondamentale è riconoscere il prima possibile i segnali non motori, sovente sottovalutati: innanzitutto l’iposmia, cioè la scarsa percezione degli odori, poi la depressione, infine alcuni disturbi del sonno in fase Rem, come agitazione e movimenti involontari. Sintomi che precedono il Parkinson o altre patologie neurodegenerative associate all’alfa-sinucleina. Inoltre, ricorda l’esperto, nella fase precoce è cruciale l’attività fisica quotidiana, come passeggiate a passo sostenuto: può dare benefici considerevoli e potenziare l’effetto dei farmaci.Ma quando la diagnosi è tardiva, quali possibilità di cura esistono? Diverse: anti-infiammatori e altre molecole che hanno come target ulteriori proteine anomale. In futuro, multi-terapie per bloccare la progressione del Parkinson, i cosiddetti medicinali «disease-modifying». «Dobbiamo però ricordare, anche per dare speranza oggi ai nostri pazienti, che ci sono tanti farmaci sintomatici utili nella quotidianità» precisa Calabresi. «Il cardine è la levodopa, che conosciamo da molti anni e con cui possiamo supplire ai disturbi motori: rigidità, lentezza nei movimenti e tremore a riposo. Funzionano bene nella fase iniziale, nei primi cinque anni».

Infine, ci si sta orientando verso soluzioni molto tecnologiche: «Abbiamo opzioni terapeutiche chirurgiche come la deep brain stimulation» conclude Calabresi. «Ossia la possibilità di inserire nel cervello con tecniche stereotassiche, quindi estramente precise, un elettrodo, in pratica una sorta di pacemaker cerebrale, e stimolarlo inibendo l’attività dei nuclei eccitatori. Approccio utile nella fase complicata dalle discinesie: sono elettrodi che diventano più intelligenti, con sempre più “punti di contatto” e con la possibilità di stabilire con maggiore precisione la aree del cervello da stimolare, variando intensità e frequenza».

Un cervello che grazie alla ricerca scientifica potrà diventare quasi «bionico», così da permettere ai malati di vivere più a lungo e soprattutto meglio.

© Riproduzione Riservata