Dal termometro alla «trattografia cerebrale», un viaggio tra storia e scienza. Fino al presente, con tecnologia e ricerca che trasformano radicalmente la «valigetta del dottore», le diagnosi e le terapie. Come racconta un saggio illuminante.
La borsa strapiena, lo stetoscopio al collo, e poi martelletti, termometri, sfigmomanometri e saturimetri. Nell’immaginario collettivo, il medico che entra nelle nostre case per visitarci, o nei reparti ospedalieri passa in rassegna i pazienti per impostare le terapie non sarebbe tale senza i suoi strumenti. Ma nel terzo millennio della tecnologia, delle app, della telemedicina e dei dispositivi wearable, quanto contano ancora i macchinari tradizionali, rimasti immutabili nei secoli? E cosa sappiamo, tutti noi, di quanta storia e inventiva, scienza, cultura, persino arte, si celino dietro strumenti che hanno salvato milioni di vite e noi ora diamo per scontati, ma hanno invece avuto gestazioni complicatissime e spesso drammatiche?
«La storia degli strumenti medicali è un viaggio affascinante nell’inventiva umana» afferma Francesco Adami, studioso di Storia della medicina che ha appena pubblicato il libro La borsa del medico (Hoepli). «Dove per inventiva si intende un processo creativo che non dipende solo da quello che hai studiato, ma anche da come ti approcci alla vita, dalla musica, dall’arte, dai libri che leggi, dalle persone che incontri, dai drammi e dalle gioie. Il medico bretone René Laennec, per esempio, malato di Tbc, per potersi auscultare i polmoni inventò lo stetoscopio osservando alcuni bambini che giocavano con un bastone cavo. Altri esempi? La siringa prende il nome dalla divinità greca trasformata in canna di bambù per sfuggire a Pan, la Tac fu messa a punto dalla casa discografica Emi di Abbey Road, che cercava – negli stessi anni in cui, nella stanza accanto, produceva i dischi dei Beatles – di diversificare la propria attività».
E dal fonendoscopio, che permise ai medici dell’Ottocento di curare meglio le donne non dovendo più poggiare l’orecchio sul loro torace – pratica considerata inopportuna- fino al laccio emostatico, usato già nel VI secolo a.C. per salvare dai morsi dei serpenti (ha salvato anche i feriti dell’esplosione alla maratona di Boston nel 2013), la storia degli strumenti è sorprendente: «Ed è una vicenda molto italiana» prosegue Adami. «Basti pensare all’apparecchio per misurare la pressione, che si deve al torinese Scipione Riva-Rocci, o al termometro messo a punto a Firenze dagli Accademici del Cimento. O ancora al bolognese Luigi Galvani che sviluppò la teoria su cui si baseranno l’elettrocardiografo e l’elettroencefalogramma».
Ma di tutta questa storia appassionante, cosa rimane nella pratica attuale, e cosa succede, nella vita reale, nelle borse dei medici di famiglia? «Succede che è scoppiata la rivoluzione» risponde Fabio Fichera, da più di 30 anni specialista di medicina generale in Sicilia. «Mentre fino a pochissimi anni fa la mia borsa era praticamente uguale a quella di un collega di fine Ottocento, negli ultimi tempi si è evoluta con una velocità impressionante. Fermo restando l’importanza di strumenti come il fonendoscopio o lo sfigmomanometro, sui quali si basa la visita del paziente, la scienza ci permette ora di eseguire diagnosi complesse direttamente al letto del malato, grazie per esempio agli ecografi o agli elettrocardiografi palmari, che stanno in una mano o si collegano ai cellulari; così come di ricevere un grande supporto dai dispositivi portatili, quali gli smartwatch, che possono essere indossati dai pazienti e ci rimandano in tempo reale preziose informazioni sullo stato di salute».
La pandemia, peraltro, ha accelerato questo processo, facendo entrare in quasi tutte le case degli italiani uno strumento come il saturimetro (creato, come lo conosciamo ora, dall’ingegnere giapponese Takuo Aoyagi nel 1974), che misura il livello di ossigeno nel sangue e con cui i medici sono spesso stati in grado di salvare – a distanza – i pazienti dalla pericolosa ipossia silente, avviandoli in ospedale. Nelle corsie, la sintesi tra antico e futuribile è ancora più evidente: «Nel mio camice c’è sempre il fonendoscopio, ancora immancabile e fondamentale per uno specialista come per il medico di medicina generale» spiega Andrea Arighi, neurologo al Policlinico di Milano. «E ovviamente il martelletto, per controllare i riflessi. Poi, alla parte “classica” subentra quella tecnologica: si passa alle neuroimmagini, con strumenti avanzatissimi che vanno dalla Tac di base fino alla risonanza magnetica, con cui possiamo fare cose all’avanguardia: per esempio riusciamo a eseguire la trattografia, cioè a ricostruire le fascenervose cerebrali, o la risonanza funzionale con la quale analizziamo le aree che si attivano quando si esercita una determinata funzione».
Ma attenzione, tutto questo non potrà mai superare l’occhio clinico e quel sofisticato equilibrio tra scienza, razionalità, sentimenti e corporeità che fanno la differenza tra un uomo e un macchinario (oltre che tra un medico e un altro). «Il rischio dell’eccessivo “affidamento” agli strumenti esiste» ammette Fichera «ma dobbiamo sempre ricordarci che la visita si basa su quattro capisaldi: ispezione, palpazione, percussione e auscultazione, ai quali oggi stiamo cercando di aggiungere l’insonazione. Solo dopo possono entrare in campo strumentazioni più complesse. E alla fine rimangono l’intuito e la preparazione del medico». Perché sarà pure scoppiata la rivoluzione, nella valigetta dei dottori, ma a fare la differenza saranno sempre mente e cuore: quelli dell’uomo.
