Home » Gli invisibili della medicina

Gli invisibili della medicina

Gli invisibili della medicina

A ritenere che la donna sia nata da una costola dell’uomo, e ne sia dunque una sorta di «facsimile», è rimasto qualche pervicace creazionista del Texas. E una certa medicina. Intendiamoci, la scienza conosce benissimo tutte le differenze anatomiche, fisiologiche e biologiche tra lui e lei. Ma quando si tratta di applicare ciò che si sa a ciò che si fa, le cose cambiano.


Andando dritti al punto: nella ricerca clinica necessaria per stabilire se un farmaco o un trattamento funzionano per una data malattia (e quindi potranno essere immessi sul mercato), gli studi clinici sono condotti in prevalenza sugli uomini. Efficacia o eventi avversi vengono evidenziati soprattutto sull’organismo maschile. E non sono soltanto le donne a essere meno «arruolate»: sono esclusi anche gli anziani oltre i 70 anni, la categoria che più necessita di terapie. Così come sono le donne a consumare più farmaci, in genere, degli uomini.

Maschilismo, discriminazione, disinteresse? Ma no, i motivi sono altri, più pragmatici e, almeno in parte, comprensibili (vedremo poi quali). Di fatto, però, finisce che la medicina ancora oggi tiene poco conto di come donne e anziani metabolizzano i farmaci, li smaltiscono, reagiscono a dosi ed eventi collaterali.

Non parliamo solo di pillole. Specialmente nel caso delle donne, arrivano in ritardo diagnosi, accertamenti, terapie, come ricorda il saggio Quella voce che nessuno ascolta (edizioni Giunti, da poco in libreria) scritto da due medici: Daniele Coen, ex primario del Pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano (e autore di altri testi scientifici); e Valeria Raparelli, ricercatrice clinica al dipartimento di Medicina traslazionale per la Romagna, ed esperta di medicina di genere. E non c’è nulla di «politically correct» in questo discorso. In ballo ci sono l’appropriatezza delle cure, il decorso di una patologia, la possibilità di stare meglio o se non di salvarsi la vita.

Che la donna non sia sovrapponibile, fisiologicamente parlando, all’uomo, lo dicono i numeri: sono alte in media il 10 per cento meno, hanno minore massa muscolare (del 20-30 per cento) e maggiore massa grassa (tra il 25 e il 28 per cento, nel maschio giovane oscilla tra il 12 e il 15).

E dal momento che la distribuzione nel corpo di tanti farmaci – ossia come vengono assorbiti, biotrasformati ed eliminati – varia in base alla composizione corporea, è evidente che queste differenze comportano ricadute concrete. Per non parlare poi delle diversità ormonali tra lui e lei, delle differenti funzionalità renale ed epatica, tutte peculiarità che influenzano il destino di un farmaco.

Molti medicinali vanno in circolo più velocemente nell’organismo femminile, come il paracetamolo, vi restano più a lungo e in concentrazione più elevata. Altro esempio: le benzodiazepine danno più di frequente reazioni avverse nel sesso femminile. Così come le statine contro il colesterolo elevato: il dolore muscolare, uno dei loro effetti collaterali, colpisce più le donne, nelle quali, quindi, il rapporto rischio-beneficio è da valutare in modo più scrupoloso. Lo si fa? Ci permettiamo di dubitarne.

L’elenco sarebbe lungo. Ma perché le donne vengono arruolate poco (la percentuale si aggira intorno al 25-30 per cento) negli studi per testare nuovi principi attivi? Al di là del timore di danni al feto se la donna resta incinta nel corso di sperimentazioni spesso lunghe, le motivazioni sono varie: l’andamento ciclico degli ormoni può influire sull’efficacia di un principio attivo; le donne sono più suscettibili agli effetti avversi, il che non incoraggia certo le aziende a coinvolgerle. Poi ci sono ragioni psico-socio-culturali: partecipare a uno studio (che richiede tempo per visite e controlli) diventa complicato quando si deve anche pensare alla famiglia o al lavoro.

«Ancora adesso quindi c’è una prevalenza di uomini negli studi clinici, anche se le cose stanno lentamente migliorando» spiega Coen. «Negli ultimi anni agenzie di regolamentazione come la Fda americana o l’Ema europea stanno facendo uno sforzo per chiedere ai ricercatori e alle aziende del farmaco di arruolare un numero adeguato di donne, di analizzare i dati separatamente e non solo tutti insieme, e di discutere la possibile rilevanza delle differenze di genere». Così da non trasformare i risultati in terapie uguali per tutti.

Se le donne stanno recuperando terreno, non così gli anziani (oltre i 75 anni), inseriti nelle ricerche per nuovi farmaci in percentuali modeste, a meno che il principio attivo non riguardi proprio loro. Gli esperti della Fda, in particolare, denunciano che «sono sotto rappresentati negli studi oncologici, nonostante siano il segmento principale, tuttora in crescita, della popolazione dei pazienti con tumore».

«È una categoria storicamente sottorappresentata» conferma Alessandro Mugelli, professore emerito di Farmacologia all’Università di Firenze, «perché è difficile che sia omogena, presentano co-patologie, possono avere disabilità e assumere più medicine, tutti fattori di giusta esclusione».

Dal momento che sono proprio loro ad avere più necessità di terapie, come si esce dall’impasse? «Un aiuto può venire dagli studi osservazionali in cui i pazienti, nella pratica clinica, sono sottoposti agli interventi necessari: qui la popolazione anziana è ampiamente rappresentata, e si possono ottenere informazioni sull’efficacia e sicurezza delle terapie» risponde Mugelli. «È la cosiddetta “real world evidence” , molto importante anche se resa difficile dalla normativa sulla privacy».

Il problema dei nuovi prodotti testati di preferenza su volontari maschi (età media 50-60 anni, peso medio 70 chili) emerge soprattutto quando, con la paziente donna o l’anziano davanti a sé – e spesso le due categorie coincidono – il medico prescrive una cura standard, arrangiandosi in base ai dati che ha. Ma nell’organismo che invecchia possono esserci deficienze di tipo epatico o renale, e altri parametri alterati.

«Molti anziani assumono anche più di 10 medicinali. Hanno un deterioramento delle funzioni fisiologiche e meccanismi diversi di assorbimento ed eliminazione dei farmaci. Con un metabolismo rallentato, il rischio è avere reazioni avverse da sovradosaggio» avverte Mugelli. «Il geriatra dovrebbe avere la cultura per capire come ottimizzare la terapia. Senza questa attenzione e sensibilità, difficile valutare le potenziali interazioni clinicamente signicative fra le varie medicine».

Oltre alla scarsità di informazioni «personalizzate» per sesso ed età, resistono ancora, per una sorta di inerzia, pericolose difformità in settori chiave, come nelle malattie del cuore. Quando è lei ad avere un infarto, scrivono Coen e Raparelli, «tutti i tempi di intervento, pre-ospedalieri e ospedalieri, sono più lunghi. Le donne vengono trattate con uno stent meno spesso che gli uomini, e hanno una mortalità per infarto quasi doppia».Tra i motivi, la differente fisiopatologia della malattia coronarica nel genere femminile.

Quando il loro cuore dà forfait, i sintomi sono un po’ diversi rispetto a quelli maschili, e possono non essere riconosciuti, portando a interventi tardivi.

Uno studio australiano del 2021 è andato a quantificare il ritardo, nel caso delle donne, tra la chiamata per infarto, l’ambulanza, l’arrivo in ospedale, la diagnosi e l’intervento per lo stent (che riapre la coronaria occlusa). Risultato: 17 minuti in totale. Sembra poco? Nel corso di un infarto un quarto d’ora in più o in meno può fare la differenza.

A rendere meno «visibili» le particolarità dei pazienti donne – e lo stesso discorso vale per gli anziani -, è anche un certo stereotipo per cui il genere femminile è più ansioso, e dunque «signora, non si preoccupi, i suoi sintomi sono solo ansia, le dò un tranquillante». Mentre quei segnali un po’ sfumati dicono in realtà che il suo cuore funziona male. Non solo. «Se il medico etichetta un paziente come ansioso, rischia poi di prenderlo sottogamba» commenta Coen.

Come si diceva, qualcosa sta cambiando. Nel 2019, il ministero della Salute ha adottato il primo Piano nazionale per diffondere la medicina di genere negli ambulatori e ospedali, con corsi di formazione ad hoc. «E a marzo 2023 un decreto firmato dal ministero dell’Università e ricerca e da quello per la Salute si propone di ripensare la formazione dei futuri professionisti sanitari» dice Raparelli. «Ma per formare adeguatamente c’è bisogno di dati scientifici solidi generati da una ricerca clinica e farmacologica attenta al sesso e al genere dei pazienti».

Per amor di verità, va detto che, per i ricercatori o le aziende farmaceutiche, reclutare un numero sufficiente di volontari per le sperimentazioni è tutt’altro che facile. Nel loro saggio, Coen e Raparelli riportano che in una percentuale al 20 al 60 per cento dei casi, la richiesta di partecipare a uno studio clinico viene respinta, e a rifiutare sono più di frequente proprio donne e anziani, soprattutto di status socio-economico basso.

Tra i motivi: una generica paura, l’idea di essere usati come cavie, la scarsa conoscenza di che cosa significa, per la medicina e la scienza, uno studio clinico. Negli ultimi anni, dicono gli esperti, c’è stato un calo nel numero dei volontari disponibili. «Nella mia lunga esperienza di comitati etici» racconta Mugelli «il problema principale spesso è la carenza di informazioni date al paziente quando gli viene chiesto di aderire a uno studio. Così le persone perdono fiducia. La partecipazione alla ricerca cresce nella misura in cui si fa capire perché è necessario farla. Ma le ragioni scientifiche devono essere ben spiegate, il “consenso informato” va ottenuto dopo aver fornito spiegazioni adeguate e corrette, lasciando tutto il tempo necessario per decidere in modo consapevole».

Peccato che troppe volte avvenga il contrario: una firma frettolosa su un foglio, e finisce tutto lì.

© Riproduzione Riservata