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Nel labirinto di tamponi e green pass

Nel labirinto di tamponi e green pass

Con il continuo cambiare delle direttive dal ministero della Salute, guariti e positivi al Covid non sanno più come regolarsi. E così molti restano imprigionati in casa, magari con i figli in quarantena, bloccati dai bizantinismi burocratici della carta verde. Che non contempla vie d’uscita.


«Sono positivo, ma il mio green pass è ancora attivo». E, ancora: «Sono guarito da tre settimane, ma non mi è arrivato il green pass. Visto che non ero vaccinata, non ho alternative, e così resto a casa. Nel limbo». O: «Per uscire dalla quarantena ho fatto il tampone molecolare e sono risultato positivo a bassa carica, poi quello rapido ed ero negativo. Da cinque giorni faccio avanti e indietro tra Asl, medico curante e farmacia. Nessuno però sa darmi una risposta, e il mio vecchio green pass resta bloccato».

Sembrano istantanee da un mondo parallelo, invece è la realtà in cui siamo sprofondati. Una quotidianità che somiglia a un labirinto o al gioco dell’oca dove il rischio è l’isolamento eterno, il montepremi in palio il super green pass. In mezzo, decine di variabili, «normate» chimericamente, e migliaia di italiani che da settimane si sono ritrovati al centro di un perverso quiz le cui domande vertono su una molteplicità di imposizioni incomprensibili ai più (perfino a chi dovrebbe orchestrarle).

«La verità» spiega Simona, infermiera a Milano «è che nessuno ha le idee chiare. Sulla carta sembra tutto semplice – tampone positivo luce rossa, tampone negativo green light – in realtà non è così: le piattaforme del ministero spesso non si aggiornano, non comunicano con quelle regionali, i medici di famiglia non rispondono e parlare con qualcuno dell’ufficio deposto delle Asl, il centro di igiene, è impossibile». C’è chi si organizza sfruttando le conoscenze personali, supplicando una verifica sulla propria posizione, chi invece manda a memoria le «Faq» del governo, che provano a fare luce fra le mille variabili.

Dove non arriva però il regolatore, si insinua l’enigma. Come per Chiara, segretaria di Taranto: «Sono vaccinata con tre dosi, ma il mio compagno è positivo. Ho fatto il tampone e sono negativa, non ho sintomi, dovrei andare al lavoro, ma non me la sento. Così, visto che per legge non è previsto alcuno stop, ho dovuto chiedere le ferie». Assurdo? Non abbastanza.

Le situazioni più surreali riguardano il mondo della scuola. Giorgio ha 10 anni e frequenta le elementari a Pescara, i genitori hanno deciso di vaccinarlo. Eppure, come accaduto nelle ultime settimane a centinaia di altri bambini, il suo vaccino sembra «valere» meno di quello di un adulto. Se infatti uno degli ultimi decreti stabilisce che un maggiorenne alla terza dose non è più soggetto a quarantena in caso di contatto stretto con un positivo, le direttive scolastiche dicono che, invece, non è così per alunne e alunni delle elementari. «Un compagno di scuola è risultato positivo» spiega Sara, la mamma di Giorgio «e per due settimane mio figlio è rimasto a casa, con tutte le conseguenze del caso».

Già, perché l’effetto domino in queste circostanze è dietro l’angolo: «Noi non possiamo permetterci una baby sitter e sia io sia mio marito lavoriamo: siamo stati costretti a prendere dei permessi per restare a casa. Così non se ne esce». Non è un caso che nelle ultime settimane la protesta dei genitori abbia raggiunto i palazzi istituzionali. «Siamo davanti a un paradosso» sottolinea anche il virologo Massimo Andreoni «specie perché assistiamo a una crescita dei casi di positività nei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Molti per fortuna hanno completato il ciclo vaccinale, altri sono guariti di recente».

Un paradosso che è evidente per quanto capitato a un’altra mamma, Cecilia, che vive a Pisa: «Una settimana fa eravamo a cena e un nostro amico è risultato positivo. Noi siamo tutti vaccinati: mia figlia era con noi e non ha fatto alcuna quarantena. Se fosse capitata la stessa cosa in classe sarebbe dovuta restare a casa. Che senso ha?».

Inevitabile che, stando così le cose, in molti preferiscono eludere le regole. Specialmente se rischiano di toccare l’ambito lavorativo, e il portafogli. Quanto capitato a Paolo, ingegnere torinese che lavora per un’importante società italiana e che contattiamo tramite social, è una vera e propria gimcana: «Ero per lavoro in provincia di Napoli. Lì sono stato una settimana e poi sono andato a Roma, nella sede centrale della mia azienda per concludere un lavoro».

Mentre era nella capitale, più per scrupolo che per altra ragione, Paolo decide di sottoporsi a un tampone: positivo. «Non avevo alcun tipo di sintomo, ma subito è partita dalla farmacia la segnalazione all’Asl e mi è stato comunicato che avevo il divieto di muovermi: dovevo restare a Roma, pur abitando a Torino».

Paolo è rimasto per 12 giorni (fino alla negativizzazione) in hotel a spese dell’impresa. «È stata un’esperienza surreale: mi lasciavano il pasto fuori dalla camera, nessuno veniva a pulirmi la stanza, io stesso lasciavo la spazzatura fuori dalla porta. Ero recluso pur senza sintomi. Se avessi avuto l’auto, lo ammetto, sarei tornato a casa. Infischiandomene delle regole. Purtroppo in treno e in bus ti controllano la certificazione. O comunque dovrebbero. Per fortuna io non ho speso un euro, e lo stipendio a fine mese mi arriverà per intero».

C’è però chi non è così fortunato da avere alle spalle un’azienda che possa far fronte a spese di questo tipo. Non sono poche le persone, magari lavoratori autonomi, che hanno sempre al seguito un kit di tamponi fai-da-te: «Dovessi avvertire qualche tipo di sintomo, mi tamponerei subito. Ma meglio evitare ogni tipo di formalismo e segnalazione all’Asl» dice Fabio, che di mestiere fa l’idraulico e si trova spesso fuori casa per lavoro. Il rischio – e il sospetto – è che alla fine si allarghino le zone d’ombra. E si moltiplichino i luoghi di lavoro in cui – a detta degli intervistati – è meglio far finta di nulla piuttosto che confessarsi positivi.

«Quando si è in gruppi di 10 persone in giro per lavoro e si è tutti vaccinati» spiega un insider del mondo della televisione privata «capita che qualcuno faccia un colpetto di tosse o starnutisca. E in quel caso che si fa? Si blocca il lavoro di tutti perché, nonostante il vaccino e per quanto stiano tutti bene, bisogna aspettare per ogni persona il risultato del molecolare? Sarebbe una follia».

Dunque, meglio chiudere un occhio (o entrambi), indossare la mascherina Ffp2 e proseguire così. Immancabili – fra i casi limite – quelli grotteschi. Come per i pazienti dell’ormai noto Federico Calvani, medico pistoiese accusato di aver simulato decine di vaccinazioni: uomini e donne – spesso anziani – dotati di green pass, cui è stata somministrata, a loro insaputa, al posto della dose una semplice soluzione fisiologica. «Dovrei fare il dosaggio degli anticorpi, ma ho paura della verità. Allora mi tengo il mio green pass» commenta una paziente che preferisce restare anonima. E poi, sorniona: «Almeno finché dura».

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