Medici e infermieri assistono i malati e ne condividono il dolore e la morte. Ferite che possono provocare un devastante effetto «burn-out» Come racconta a Panorama la psicologa Rosalba Gerli.
Resistono. Alla fatica, ai turni inumani, alla paura del contagio, a un virus che, giorno dopo giorno, massacra i «loro» pazienti. Hanno tenuto duro per mesi. Poi, in tanti, sono crollati. Anche i più forti. Le loro ansie ricorrono nei colloqui quotidiani con Rosalba Gerli, psicologa, psicoterapeuta esperta in disagio lavorativo e, ora, responsabile del Progetto Sostegno psicologico per medici e operatori sanitari nell’emergenza Covid-19. Che a Panorama racconta l’effetto burn-out degli infemieri, lo stress che li lascia letteralmente «bruciati», come dice la stessa espressione inglese.
La pandemia ci ha messo il carico da 90, ma questo è un mestiere già di per sé difficile. Un infermiere riesce a sviluppare «anticorpi » contro lo stress?
In questo lavoro il rischio di burn-out è sempre alto, spesso sottovalutato dagli stessi operatori, così come l’importanza delle funzioni che devono svolgere. Il medico è concentrato sulla terapia, ma sono gli infermieri, alla fine, a «curare gli infermi» come dice lo stesso termine, nel senso di prendersene cura. Pensi solo all’importanza dei gesti che compiono verso malati così sofferenti come quelli con il coronavirus: la manipolazione di quei corpi richiama quella materna verso i neonati. Gli infermieri hanno accesso a parti del corpo che in genere toccano solo i genitori o gli amanti, perciò pensi a tutta la delicatezza che ci vuole. Serve una competenza tecnica ma anche emotiva.
Dopo mesi nella trincea Covid-19, cosa viene fuori dai suoi colloqui?
Ricorrono ansie di contagio, angosce di morte, insonnia e incubi, senso profondo di impotenza e di inadeguatezza. E sentimenti di rabbia perché non si sentono abbastanza supportati e tutelati, senza adeguati strumenti di protezione.
Eppure è una categoria che dovrebbe essere abituata ad attraversare morte e sofferenza.
Ma questa cosa ha travolto anche loro. E, banalmente, quando è troppo, è troppo. Crollano persino i più resilienti. Anche la morte che avviene in solitudine è sentita come troppo dolorosa. E trovare le parole giuste, dire «stiamo tutto facendo il possibile, porterò a suo padre, o a suo marito, il suo amore», magari prima di un decesso.
Quali sono i momenti più a rischio di crollo?
Mi chiamano, per esempio, infermieri che si sentono buttati allo sbaraglio, senza un’adeguata formazione, nei reparti Covid-19, come fossero jolly, senza il tempo di sentirsi parte di una squadra. Invece laddove c’è un gruppo coeso, persone che già lavoravano insieme in terapia intensiva o rianimazione, il rischio di crollo è più raro. È un enorme fattore protettivo. Ho ricevuto anche chiamate disperate di medici o infermieri i cui compagni colpiti dal virus erano stati portati via in condizioni gravi in ospedali a loro sconosciuti e si sentivano smarriti come i familiari dei loro pazienti.
Che cosa comporta, nel concreto, il burn-out in queste persone?
La sindrome del lavoratore «bruciato» esaurisce le risorse emotive, si sentono prosciugati, delusi. Sperimentano una grande differenza tra le aspettive idealizzate e la capacità di aderire alle richieste quotidiane, tra fatica, ritmi di lavoro, mancanza di supporto. Alcuni vanno in crisi di depersonalizzazione.
Che significa?
Che riportano la sensazione di vedersi fare le cose dall’esterno, come fossero robot. Oppure mettono in atto distacco emotivo e cinismo come forme di difesa. Se non affrontato subito, il burn-out rischia di cronicizzarsi e di portare all’inabilità lavorativa.
Soldati traumatizzati dalla guerra, verrebbe da dire…
Infatti molti sviluppano un disturbo post-traumatico da stress: pensieri intrusivi e ricorrenti di scene vissute al lavoro, immagini di morte, incubi notturni, crisi di pianto. Dovremo prepararci per il dopo, quando ci sarà da aiutare a elaborare un trauma che riguarda tutto il personale sanitario.
Lei ha detto che provano anche senso di colpa. Colpevoli di cosa?
È un senso di colpa doppio: per non essere riusciti a fare di più, e per il dubbio di aver diffuso il contagio verso altri pazienti o i propri familiari. E sentimenti di rabbia perché non avevano adeguati strumenti di protezione.
All’inizio era sicuramente così…
All’inizio, dice lei? Ho ricevuto anche ieri testimonianze di infermieri che soltanto dopo tre giorni di febbre hanno ottenuto il permesso di stare a casa.
In un ospedale?
No, sto parlando, nello specifico, di una grande Rsa. Ma anche negli ospedali, di recente, incitavano a non stare a casa se non si avevano determinati sintomi. E molti fanno i conti dentro di sé con questo dubbio, con il fardello di aver contagiato qualcuno.
Oggi a infermieri e operatori viene fatto il tampone?
Mah. Io so che non è così facile, nemmeno per loro. Mi ha telefonato l’altro giorno un’infermiera di una Rsa con sospetto Covid-19 e con il dubbio di aver infettato marito e figli, rimasta a lungo senza tampone. Alla fine è risultata negativa. E un altro operatore sanitario, con Covid-19 accertato, continuava a chiamare ogni giorno i suoi colleghi da casa investendoli di tutta la sua rabbia e il suo disagio.
Nelle Rsa queste situazioni critiche sono più frequenti?
Dalle case di riposo in effetti sono in tanti a chiamare. Gli operatori sanitari qui sono sottopagati e hanno pochi diritti. Vengono assunti tramite cooperative, hanno fortissimi carichi lavorativi, pressioni continue e poca formazione per questi frangenti. Raccontano di essere stati costretti a lavorare senza mascherine perché la direzione non voleva «allarmare i pazienti». Uno di loro mi diceva che aveva cominciato a stare male perché seguiva un paziente poi risultato infetto, ma i suoi superiori insistevano perché non andasse a casa: «Il mio direttore mi misurava la febbre e diceva che non l’avevo». Oltre alla malattia, anche le angherie.
Le capita che qualcuno, alla fine, dica «non ce la faccio più», voglio lasciare?
Certo che capita. Alcuni vogliono proprio dimettersi.
E lei che risposte dà in questi casi?
Chiedo loro da dove è venuta la scelta di questo mestiere, la cosa che li ha fatti decidere. La risposta è quasi sempre «aiutare le persone». C’è un senso di riparazione che motiva la loro scelta, anche nelle situazioni limite.
Essere considerati eroi li aiuta?
Al contrario, li danneggia. La metafora degli eroi è rassicurante socialmente, ma li inchioda ad aspettative sociali altissime. Un eroe sacrifica se stesso, si immola. Invece vanno protetti. Sono professionisti con una forte etica cui essere grati per quello che fanno ogni giorno. Come cantava De André, meglio un soldato vivo che un eroe morto.
