Sono oltre 100 mila in Italia le infezioni da coronavirus di origine professionale. Un numero destinato a crescere. Ma non per tutte le categorie esposte al contagio vale la tutela dell’Inail. Ancora oggi ne sono esclusi i liberi professionisti. Come tassisti e persino medici di famiglia…
Liana è una geriatra. «Prima vivevo a Bergamo e lavoravo in ospedale a Milano». È marzo, uno dei periodi più drammatici della prima ondata della pandemia, quando contrae il coronavirus: «Prima febbriciattola, poi una grande stanchezza. Dopo tre settimane sono tornata a lavoro, e mi hanno chiamato nel reparto Covid-19: sono stata male altre due volte, mi hanno portato al pronto soccorso per due pericarditi, una conseguenza del virus».
Claudio, invece, è un operaio: «Ho fatto domanda all’Inail per avere qualche forma di indennizzo» racconta a Panorama. «Quest’estate ero in cantiere, con tutte le protezioni del caso. A settembre ho iniziato a sentirmi male, uno strano tremolio, poi la febbre. Sono stato mesi a casa, ma ho dovuto lasciare il lavoro perché non riesco a riprendermi. Ci sono giorni in cui mi sento spaesato». «Nebbia cognitiva» la chiamano, una conseguenza della malattia.
Due storie profondamente diverse, segnate però dallo stesso dramma: infortuni Covid sul lavoro. I numeri fanno paura: secondo l’ultimo aggiornamento dell’Inail (al 30 novembre) sono 104.328 le infezioni da coronavirus di origine professionale, il 20,9 per cento del complesso delle denunce di infortunio.
Il rischio che il numero possa crescere a dismisura è concreto se si pensa che solo a novembre sono state 27.788 (a ottobre erano state 9.399). Rispetto alle attività produttive coinvolte dalla pandemia, il settore della sanità e assistenza sociale con il 68,7 per cento delle denunce e il 23,7 per cento dei casi mortali codificati precede l’amministrazione pubblica, in cui ricadono il 9,2 per cento delle infezioni denunciate e il 10,3 dei decessi. Gli altri settori più colpiti sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il settore manifatturiero, la ristorazione e il commercio.
Il dato, però, non racchiude certamente tutti i casi. Nonostante l’impegno dell’Inail a non lasciare indietro nessuno, come ammette a Panorama anche il presidente dell’Istituto Franco Bettoni, se da una parte «per alcune categorie, come quella degli operatori sanitari e altre che comportano costante contatto con il pubblico – lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite – vale la presunzione semplice di esposizione professionale, ossia si dà per presunto il nesso causale tra l’infezione da Covid e il lavoro svolto, sollevando il lavoratore dall’onere della prova, rimane aperta la questione dell’esclusione dalla tutela Inail di soggetti particolarmente esposti al rischio contagio, come i medici di famiglia e i medici liberi professionisti».
Risultato? «Le oltre 100 mila denunce di contagi sul lavoro da Covid-19 pervenute all’Inail, alla data del 30 novembre, non comprendono queste categorie. Il dato è preoccupante». Senza dimenticare, ancora, la mole di liberi professionisti per i quali accertare un nesso tra contagio e lavoro diventa problematico, se non impossibile. È il caso, per esempio, di Margherita, tassista a Milano. Risponde al telefono con uno voce flebile: da meno di un mese è uscita dal vortice del Covid. «Non posso dire dove ho contratto questo maledetto virus. Però, nonostante mille accortezze, con il taxi accompagno le persone più disparate, spesso da e per l’ospedale. Sono stata a casa per un mese e mezzo prima di riprendermi». Anche Margherita, come Claudio, ha fatto domanda all’Inail: «I tassisti sono considerati soggetti a rischio, dovrei percepire qualcosa per il periodo in cui non ho lavorato».
Chi invece non farà domanda all’Inail è Daniele, 23 anni, agente immobiliare. Anche lui oggi non sa come si è contagiato. «Per fortuna l’ho preso in forma lieve. Il punto, però, è che verosimilmente sono stato io a passarlo a mio padre». Bruno (il padre) è un piccolo imprenditore edile: «All’inizio dell’infezione provava a lavorare da casa. Poi è peggiorato, finché non siamo andati in ospedale: il Covid aveva causato un’infezione alla membrana del cuore. Ci sono volute diverse settimane in terapia intensiva prima di tornare alla “quasi” normalità». Bruno ha trascorso mesi tra casa e ospedale, ma è impossibile recuperare entrate e tempo perduto, e i postumi – assicura il figlio Daniele – non sono completamente passati.
Per questa ragione anche l’Anmil (Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro) a oggi non è pienamente soddisfatta. «Ai numeri elevati delle denunce di contagio Covid da lavoro» dichiara il presidente Zoello Forni «purtroppo non corrisponde un analogo riconoscimento da parte dell’Inail: constatiamo gravi difficoltà nel veder costituire rendite sia ai familiari superstiti di chi muore per le conseguenze del Covid sia per chi riporta danni permanenti, persino quando i lavoratori operano in ambito sanitario. Chiediamo che ci sia maggior rispetto per coloro che in questo periodo di pandemia, oltre alla grave condizione di stress, si ritrovano contro anche un ente pubblico che, in fondo, rappresenta quello stesso Stato che chiede ancora grandi sacrifici a tutto il mondo del lavoro».
Una situazione profondamente precaria, dunque. Che avrà conseguenze anche sul fronte giudiziario. Da mesi ormai, da quanto risulta a Panorama, sui tribunali del lavoro (ma anche su quelli ordinari) piovono denunce, cause e ricorsi di lavoratori o persone che avrebbero contratto il virus in luoghi di lavoro. «Senza ombra di dubbio i tribunali saranno investiti dai ricorsi presentati da lavoratori contagiati dal Covid ancora a lungo. E considerando che questi processi durano non meno di dieci anni, tra tutti i Dpcm emessi e le varie ordinanze d’emergenza, è evidente che per anni e anni si rischia un pesante ingolfamento della macchina giudiziaria» spiega non a caso il magistrato di Cassazione Bruno Giordano.
Che teme che l’ingorgo sarà determinato anche da un altro aspetto, non secondario: «Non c’è solo una questione di “inflazione” di norme che spesso si contraddicono o contraddicono l’impianto normativo pre-esistente» aggiunge il magistrato. «Il governo tra le altre cose ha previsto anche una sorta di “scudo penale” per i datori di lavoro: i professionisti potranno accedere a indennizzi, ma non potranno rifarsi sul datore. Io sono certo che prima o poi qualcuno solleverà la questione di legittimità. Allora a pronunciarsi dovrà essere la Corte costituzionale». E, secondo Giordano, il rischio che la Consulta possa bocciare questa norma perché incostituzionale non è così peregrino. Con tutto quello che ne potrebbe derivare in termini di nuovi ricorsi, nuovi processi, nuovo interminabile caos.