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Diabesità, l’altra epidemia

Diabesità, l’altra epidemia

Ci siamo trasformati, da ex magri del secondo dopoguerra, in una popolazione zavorrata dai chili di troppo. Compresi i bambini. In Europa, siamo tra i più «extra large». E la pandemia non ha certo aiutato. Un fenomeno in continuo aumento, che spiana la strada al diabete e ad altri guai di salute. Danni che però possono essere arginati. Basta non aspettare troppo.


Tenete a portata di mano un metro, di quelli flessibili, vi verrà utile più avanti leggendo questo articolo. Che racconta di un’epidemia estesa in mezzo mondo (non esiste solo il Covid), soprattutto in Stati Uniti, Sud America, Asia, Europa – Italia compresa – e parecchi Paesi emergenti, tra cui l’Africa.

Non è contagiosa, ma non si ferma. Secondo dati Oms, il numero di persone sovrappeso o obese sul pianeta – perché di questo stiamo parlando – è raddoppiato dal 1980, e oggi circa 2 miliardi di adulti vivono zavorrati dai chili di troppo, mentre più di 600 milioni sono obesi. E il diabete di tipo 2, che ne è conseguenza frequente in quanto legato allo stile di vita e all’alimentazione, riguarda un individuo su 11 (450 milioni). La connessione è così stretta che, non a caso, si parla ormai di «diabesità».

Vogliamo dare un’occhiata al nostro Paese? Tra sovrappeso e obesità, siamo intorno al 35 per cento della popolazione, mentre la prevalenza del diabete arriva al 7 per cento (in passato non superava il 3). Il che fa dell’Italia uno dei Paesi europei più colpiti dal fenomeno, con un impatto di 9 miliardi di euro annui per le spese sanitarie. Senza contare che, in pandemia, i chili in eccesso si sono rivelati uno dei principali fattori di rischio per complicanze e morte. I Paesi con il maggior numero di obesi, dice il Journal of Nutrition, sono stati quelli con il tasso più alto di decessi per Covid-19.

Come siamo arrivati a questo punto? «Volendo fare un po’ di storia, il fenomeno è esploso nel decennio del secondo dopoguerra, quando siamo passati da un periodo di scarsità di risorse a uno di abbondanza» riflette Francesco Morelli, specialista in Scienza dell’alimentazione, Cardiologia ed Endocrinologia a indirizzo diabetologico e metabolico (autore di vari saggi, tra cui Diabesità, di prossima pubblicazione presso Franco Angeli). «Il problema è che noi siamo regolati da quello che io chiamo il “genoma risparmiatore”: nel corso dell’evoluzione il nostro organismo ha imparato ad accumulare grassi in previsione dei periodi di carestia o di glaciazione: per salvare la specie il metabolismo si abbassava al minimo e non consumava più. E non ha cambiato impostazione neanche quando il cibo è diventato tanto e facilmente accessibile».

È il motivo per cui, dopo un po’ che ci mettiamo a dieta, smettiamo di perdere peso; il nostro organismo, man mano che diminuisce il «carburante» proveniente dal cibo, riduce il proprio metabolismo così da non bruciare «le scorte rimaste». Un meccanismo previdente di sopravvivenza che negli ultimi decenni si è ritorto contro di noi: portandoci, chilo dopo chilo, verso la sindrome metabolica e il diabete. Si inizia a ingrassare magari poco, un chilo all’anno, nemmeno ci si fa caso… Peccato che, continuando così, dopo 20 anni i chili diventino altrettanti: e il sovrappeso, soprattutto addominale, è l’anticamera dell’obesità e del diabete. «Negli anni Settanta iniziai a vedere tra i miei pazienti complicanze diabetiche e infarti precoci» racconta Morelli. «Così mi misi in contatto con l’Ada, l’Associazione dei diabetologi americani. Negli Stati Uniti avevano già a che fare da qualche anno con il diabete di tipo 2. E noi abbiamo purtroppo seguito l’esempio».

Non che si diventi diabeteci nel giro di un attimo. Quello è il punto finale di un percorso che dura anni. Il primo passo si chiama microangiopatia: termine che a noi dice poco, ma che non significa niente di buono. «In pratica» chiarisce Morelli «è una disfunzione endoteliale dei piccoli vasi sanguigni. Immagini un pavimento liscio e levigato che a un certo punto, aumentando il peso, diventa poroso: i componenti del sangue come globuli bianchi e piastrine si attaccano ai pori e impediscono ai principi nutritivi del sangue di andare a nutrire le cellule del corpo, che ricevono meno ossigeno e le loro pareti si ispessiscono».

Il grasso così accumulato, che un tempo si pensava fosse un semplice deposito di energia, produce invece altre sostanze poco raccomandabili, come adipochine e acidi grassi insaturi. Prima ancora di chiederglielo, Morelli ci ha già illustrato le loro malefatte: «In pratica, antagonizzano l’azione dell’insulina prodotta dal pancreas, il cui compito è tenere la glicemia a livelli normali. Il glucosio nel sangue aumenta e nel paziente si instaura l’insulina resistenza». Il primo segnale cui fare caso sono proprio quegli strati di pancia spalmati sull’addome: il grasso viscerale. In generale, negli uomini il girovita non dovrebbe superare i 102 centimetri, nelle donne gli 88 (adesso provate, visto che avete il metro). E l’incremento della circonferenza addominale è, in sintesi, il campanello d’allarme della sindrome metabolica. Interessa, secondo le stime, il 40 per cento della popolazione italiana.

L’altro grasso che si accumula intorno alle cosce o alle natiche, benché ci sembri – e sia – inestetico, non è troppo pericoloso. Non fa bene alle articolazioni, certo, ma è «benigno». Non innesca tutta quella catena di eventi, compreso il fegato grasso, che accorcia la vita. Negli Stati Uniti, scrive la rivista Jama, l’epidemia di sovrappeso-obesità-diabete ha spinto ad anticipare lo screening della glicemia e del pre-diabete ai 35 anni (prima era a 40). Oltre oceano, aggiunge il New York Times, un adulto su sette ormai è diabetico, un record impressionante. Significa che il 40 per cento degli adulti americani dovrebbe farsi il controllo glicemico.

«Loro hanno un problema sicuramente più grave rispetto a noi, ma non c’è dubbio che il fenomeno si stia presentando anche qui» commenta Paolo Brunetti, esperto di diabetologia e professore alla facoltà di Medicina interna all’Università di Perugia. «Quindi verificare la normalità del metabolismo glicidico prima dei 40 anni è corretto. E il grasso viscerale, che nel 20 per cento dei casi favorisce la comparsa del diabete, è anche pericoloso per il cuore perché mette in circolo acidi grassi».

Rispetto al passato, dove eravamo tutti più magri e meno indaffarati a mangiare (durante la pandemia, poi, il girovita collettivo si è espanso per la maggiore sedentarietà), c’è un altro fenomeno preoccupante: i chili di troppo che si vedono sempre di più sui bambini. Quelli italiani ne sono particolamente provvisti: da un’indagine realizzata nel 2019 dall’Iss su un campione di 50 mila alunni di terza elementare, è emerso che il 20,4 per cento è sovrappeso, il 9,4 obeso, il 2,4 gravemente obeso. Non solo: 1 su 2 non consuma una colazione adeguata e 1 su 4 mangia frutta e verdura meno di una volta al giorno.

«Anche in Italia noi medici cominciamo a veder parecchi casi di diabete infantile di tipo 2» continua Brunetti. «Del resto, rispetto alla nostra generazione, i bambini di oggi stanno molto più seduti, con tablet e computer, fanno meno attività fisica e consumano troppe merendine poco sane. È il diabete in età così precoce è di una gravità enorme: tanto maggiore è la sua anticipazione tanto più cresce il rischio di complicanze nel corso della vita». Tra gli effetti collaterali del troppo peso infantile: deformazioni della colonna vertebrale (come scoliosi) e rischio di infertilità in età adulta.

Se i danni sono tanti e, oltre una certa soglia, irreversibili, tutto questo si riesce disinnescare abbastanza facilmente, se si inizia in tempo utile. È vero che mantenere il peso dei 20 anni è una «mission impossible», ma alcuni parametri si possono tenere d’occhio. Oltre ai centimetri del girovita, ecco qualche altro numero utile: i trigliceridi è bene stiano sotto i 150 mg/dl, la glicemia a digiuno fra 70 e 100 mg/dl. Ancora: il colesterolo buono, l’Hdl, non deve scendere sotto i 40 e l’Ldl, quello nocivo, non deve superare i 130.

Infine, non mettersi a dieta, per quanto sembri paradossale. «Non funzionano mai nel lungo termine, servono solo a buttar giù qualche chilo per mettersi il costume al mare. Ma quando si smettono, ed è inevitabile perché sono quasi sempre diete estreme o strampalate pur di dimagrire in fretta, il metabolismo si è ridotto così tanto che non solo non si cala più di peso ma si ricomincia a ingrassare.

Un circolo vizioso, avverte Morelli. «Viviamo in un’età di abbondanza e, del resto, rinunciare al consumismo non si può, deve crescere per tenere dietro a paesi più evoluti dove il Pil va veloce, come Cina e Stati Uniti. Quello che dobbiamo fare è reimparare a mangiare, una rieducazione alimentare che inizia dall’infanzia e dura tutta la vita, così come mantenere nel corso degli anni il peso giusto, senza oscillare avanti e indietro. Altrimenti sarà sempre una battaglia persa».

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