I multintegratori, dice uno studio condotto su oltre 2 mila anziani, sembrano rallentare il declino cognitivo. Mentre è in arrivo un nuovo farmaco che promette più efficacia di quelli oggi disponibili.
Nel nostro Paese l’Alzheimer colpisce più di mezzo milione di persone oltre i 60 anni di età (i dati sono dell’Oms). Una malattia terribile, che impatta ferocemente non solo su chi ne soffre, ma sulle famiglie, sui caregiver e sul Servizio sanitario nazionale: è quindi umano e comprensibile che tutte le notizie positive che giungono dalla scienza su possibili cure per questa patologia vengano accolte con grandi aspettative. A volte troppe. Ma dopo decenni di scetticismo, soprattutto sui benefici che potrebbero derivare ai malati dall’uso delle vitamine, uno studio dell’Università Wake Forest, in North Carolina, pubblicato sulla rivista Alzheimer’s & Dementia, accende una piccola speranza.
Cosmos-Mind, questo il nome, è il primo studio randomizzato controllato su larga scala e a lungo termine che esamina gli effetti dei multivitaminici sullo stato cognitivo. Ha coinvolto una platea di 2.262 partecipanti, età media 73 anni, somministrando a un primo gruppo flavonoidi del cacao, al secondo integratori di vitamine e sali minerali, al terzo (il gruppo di controllo) un placebo. Gli effetti degli integratori su stato cognitivo, fluidità verbale e capacità di ricordare storie e numeri si sono rivelati promettenti, mentre quelli sul cacao non hanno mostrato benefici.
«È il primo studio a dimostrare che l’integrazione di multivitamine-minerali per gli anziani può rallentare l’invecchiamento cognitivo, e questo potrebbe avere un impatto significativo sulla salute pubblica» ha detto Maria C. Carrillo, responsabile scientifica di Alzheimer’s Association. Precisando comunque che sebbene l’associazione sia incoraggiata dai dati, è ancora presto per raccomandarne l’uso diffuso perché «è necessario un ulteriore lavoro che lo confermi». Benché promettente, nell’indagine restano alcune domande senza risposta: innanzitutto sulla varietà del campione, dato che si è scelto di coinvolgere solo partecipanti di etnia caucasica, e in più, dato che è stato utilizzato un integratore multivitaminico tra i più completi, i ricercatori non sono in grado di indicare quale tra i tanti principi attivi abbia portato questi risultati.
«In generale, tendo a prendere questi studi con una certa cautela» afferma Marcello D’Amelio, professore ordinario di Fisiologia umana al Campus Bio-Medico di Roma. «Gli elementi di debolezza stanno, appunto, nella mancata definizione della composizione del complesso di vitamine e minerali e nei criteri di inclusione nell’arruolamento dei pazienti. È indubbio che i microelementi, incluse diverse classi di vitamine, giochino un ruolo fondamentale nelle funzioni del cervello ma è altrettanto vero che una buona alimentazione, in assenza di patologie intestinali da assorbimento, riesce a garantire un apporto vitaminico».
In ogni caso, bisogna curare l’apporto, e l’assorbimento vitaminico, quando ancora si sta bene. Se il danno è presente, non c’è vitamina che tenga: «Quando un paziente è già deteriorato dal punto di vista cognitivo, con una risonanza o una Pet cerebrale risulta subito evidente agli esami il grado di neurodegenerazione» continua D’Amelio. «A quello stadio di sviluppo è fuori da ogni logica pensare che un complesso vitaminico possa far regredire la malattia, anche dal punto di vista cognitivo».
Esiste poi un altro fattore da tenere presente, e cioè il ritardo con il quale si arriva alla diagnosi di Alzheimer: i ricercatori calcolano che esista un periodo di «buio clinico», che arriva fino a vent’anni, durante il quale la malattia è operante ma non clinicamente evidente: «In questi anni che sfuggono ai clinici» prosegue D’Amelio «può accadere di tutto, anche un malassorbimento di oligoelementi, dovuti magari a problemi legati alla disbiosi intestinale. Si tratta di una finestra temporale estesa durante la quale si sommano fattori che nel tempo possono accrescere la possibilità di sviluppare la malattia». Occorre quindi aspettare, per capire se anche dagli integratori multivitaminici possa arrivare un aiuto concreto: gli stessi ricercatori, che parlano di un rallentamento sugli effetti dell’invecchiamento del 60 per cento (circa un anno e 8 mesi) hanno ammesso che il calcolo potrebbe essere impreciso.
Intanto, dal campo della ricerca farmacologica arrivano altre buone notizie: «Dopo molte delusioni» spiega Andrea Arighi, neurologo del Policlinico di Milano «lo scorso settembre è arrivata la notizia di un anticorpo monoclonale, il lecanemab, che ha superato la fase 3 nei test di sperimentazione. Da quello che sappiamo finora – i risultati completi verranno esposti in novembre – lecanemab, testato su una platea di 1.800 persone, ha avuto un’efficacia clinica sull’obiettivo prefissato, cioè il miglioramento del quadro clinico in base a un test predefinito così come sui bio marcatori, riguardo a un’effettiva rimozione della beta-amiloide dal cervello, la proteina coinvolta nella malattia di Alzheimer». Il nuovo farmaco si sarebbe dimostato in grado di rallentare di circa il 27 per cento il declino cerebrale. Sembra poco? Per i malati di Alzheimer e i loro familiari potrebbe però fare la differenza. n
