È uno dei maestri del design contemporaneo, collabora con numerosi marchi internazionali, sviluppa progetti di architettura, ha la direzione artistica di importanti aziende e… non le manda a dire. Interrogato sui temi attuali che attraversano il mondo del design ha puntato il dito contro la fast fashion. Prima di entrare nel dettaglio delle coordinate che oggi ha il suo lavoro.
Se invece di parlare di tendenze, parlassimo dell’impatto ambientale del vostro lavoro?
«Continuate a guidare le vostre auto e a mangiare bistecche? Bene, allora parliamo di cattive coscienze. Noi sostenibili lo siamo da sempre perché facciamo prodotti di grande durevolezza. Un divano di alta qualità, non lo cambi ciclicamente, come se fossimo nel mondo della moda. Puoi comprare tre borsette all’anno, non tre divani all’anno, o tre cucine. L’errore è stato pensare che il nostro mondo potesse essere più vicino alla moda come consumi che non rimanere legato all’onestà del prodotto. A parte qualche svarionata, il resto del mondo del design industriale tiene conto della durabilità delle cose che fa. Il 48% dell’inquinamento globale è dato dai combustibili fossili. La cosa drammatica è che il 20% dell’inquinamento mondiale, una percentuale spaventosa non è dato dalle plastiche, in termini generali ma dal fast fashion. Consuma tanto, compra una maglietta a 2 $, a 5 €, usala una volta, lavala, rimettila una seconda volta e poi buttala via. Senza sforzi, non costa nulla! Questo è il vero soggetto della discussione».
Rimaniamo in tema. Ci parli della Bottiglia Masi. L’ha definito uno dei suoi progetti più impegnativi. Ha usato il 33% di vetro in meno. Come si arriva ad una simile performance?
«Si arriva partendo da lontano. Un progetto che appare semplice: ho disegnato una bottiglia, cosa ci vuole? Siamo andati a capire quali erano i punti di non ritorno, abbiamo disegnato una bottiglia sapendo che sarebbe stato un progetto suicida. Volevamo capire i veri limiti tecnici, produttivi, tecnologici. Abbiamo fatto la mamma di tutte le prove, dovevano risolvere i punti critici. Tirare via 300 gr di peso da una bottiglia, vuol dire diminuire di una certa percentuale (-27/28%) la quantità di materiale impiegato e di energia per trattarla. Diminuiscono (-8/10%) anche i consumi nel trasporto di quella bottiglia e se considera l’intera catena, il risparmio si fa importante. Doveva funzionare nei robot che caricano le bottiglie di vino, c’erano regole precisissime da rispettare per non far impazzire le macchine. Abbiamo, quindi, insegnato alle macchine a riconoscere le bottiglie buone da quelle cattive, senza impazzire».
“Abbiamo dovuto insegnare alle macchine”: siamo noi che insegniamo ancora qualcosa alle macchine?
«È insito nel loro nome ciò che sono: uno strumento meccanico. C’è un algoritmo compresso che tiene aperti dei punti di domanda e la macchina impara. Penso alle nostre bottiglie: la macchina ha iniziato a studiarle, integrando le sue conoscenze precedenti con le nuove. Le abbiamo fornito nuovi spessori e misure, velocità di rottura. La macchina li ha letti, ha capito, ne ha rotte un po’, poi ne ha spaccate meno e via via ha capito come trattare quella bottiglia. E per rispondere alla sua domanda: si, le cose alle macchine le devi insegnare!»
Parliamo della sua MACCHINA IMPOSSIBILE, testimonianza della ricerca più pura portata avanti dal Sanlorenzo, azienda specializzata nella produzione di yacht.
«Siamo in un cantiere che cerca soluzioni tecnologicamente innovative per ridurre l’impatto ambientale dello yachting. Sanlorenzo costruisce oggetti, yacht, che nascono per non essere rispettosi, macchine molto complesse pensate per una élite. Ho iniziato a lavorare con loro 8 anni fa, negli ultimi sei abbiamo provato a cambiare le cose. Dovevamo continuare a fare oggetti che galleggiano nel miglior modo possibile, inquinando il meno possibile, diventando il più intelligenti possibili. Abbiamo lavorato su tanti mondi diversi (elettrico, ibrido, idrogeno) e alla fine si è aperto uno spiraglio, grazie a Siemens Energy. Abbiamo eliminato l’elettrico che è una colossale bufala. Una barca da 50 metri elettrica occupa l’80% dello spazio con le batterie. Abbiamo provato barche un motore a idrogeno, ma ha un altissimo livello di infiammabilità: servivano serbatoi con sette strati di protezione. L’idea era di cambiare il carburante, trasformando l’acqua del mare con il metanolo verde. Questa nuova tecnologia sarà impiegata per l’alimentazione dei servizi di bordo su yacht tra i 24 i e 73 metri di lunghezza, a partire dal 2024, e abbiamo scelto di farla vedere funzionante durante il Salone del Mobile perché in questi anni di studio, diversi cantieri, hanno parlato del nostro approccio come fosse una bufale e invece siamo nel futuro della propulsione delle imbarcazioni».
New York Design Week VS Milano Design Week. Ha vissuto entrambe da protagonista.
«La New York Design Week è paragonabile al campionato di bocce degli ultraottantenni, la Milano Design Week è la finale della Coppa dei Campioni. Spero di aver reso l’idea»
Una città come New York non è pronta?
«Servono le industrie. Milano è diventata quello che è in virtù di diversi elementi: la creatività delle industrie italiane, la volontà di prendere e guardare oltre la fiera ma soprattutto la capacità di vedere dei mondi differenti. Da un lato una virtù istituzionale, la Fiera, e dall’altra la capacità di mettere in gioco un’intera città. Per fare questo servono le industrie che l’America non ha».
Allora, basta lamentarsi delle industrie italiane.
«Si lamentano i detrattori, quella parte di industriali italiani che fanno i fenomeni. C’è chi usa ancora il mantra del Made in Italy per proteggersi dalle proprie incapacità. Per competere a livello mondiale nel 2023 devi essere bravo, se poi sei anche italiano è meglio. Non basta più coprirsi con il bandierone del “Italiano popolo di Santi, Navigatori, Poeti” e giacché che ci siamo facciamolo pure in Italia»
Entra in gioco allora la fuffa. Come si riconosce?
«Da un elemento semplicissimo. Quando vede aziende che saltano di pala in franca quella è fuffa. Quando vede aziende che seguono un preciso modello di evoluzione, allora siamo nel campo della sostanza».
Però è stato fatto e visto tutto.
«Se dovessimo ragionare in termini di conoscenza e di passaggio delle conoscenze, le potrei fare la stessa domanda parlando di musica. Tutto torna e ritorna. I materiali ci aiutano tantissimo nell’estremizzare delle forme, dopodiché le forme ci portano al dialogo, in una misura e con un rispetto che arrivano dal nostro passato. Aspetto, che può farsi difetto. Alcuni colleghi partendo dal presupposto che i materiali concedono libertà, si sono permessi uno spostamento laterale dal punto di vista estetico, con risultati da rivedere».
Però ha recentemente studiato anche un nuovo legno.
«Ho cominciato questa avventura con Kerakoll e con Alpi. L’idea era di modificare il percepito dei materiali, ho continuato con Salvatori, lavorando pietre che dovevano dare un punto di vista differente. Sono molto affascinato dalla materia, mi piace l’idea di poterla toccare e lavorare come se fosse disegnabile».
Il suo materiale. Quello che più la identifica e diverte.
«Per poter essere amichevolmente provocatorio, quello che mi piace più di tutti è la plastica, perché è un materiale intelligente che se usato bene, dura decine di anni. Siamo abituati a identificarla con l’inquinamento dei mari, dei cieli e della terra, perché è lei che costruisce il nostro packaging quotidiano. Dalla bottiglia del latte, alla busta dell’insalata. Ma la plastica di cui parlo è evolutissima, ha caratteristiche precise e zero fenoli».
Quando ha capito di essere diventato un maestro?
«Non l’ho capito. Lo dite voi. A me la parola maestro mi fa paura, mi ricorda i segni rossi sui miei compiti. Per l’amor di Dio! Architetto mi sembra già un’offesa, designer anche quella mi suona come un’offesa. Maestro è l’offesa massima. Sono uno che sta lavorando e vorrei rimanere lì».

La «Macchina Impossibile»…


