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Travis Scott al Circo Massimo: quando la musica è solo un contorno

Travis Scott al Circo Massimo: quando la musica è solo un contorno

Il messia della trap ha richiamato 50.000 spettatori nel cuore di Roma, ma il suo show è più che altro un dj-set nel quale Travis fa il vocalist e invita la folla a saltare tutto il tempo. La cosa migliore è stata l’ospitata di Kanye West

Secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani l’utopia è la “formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello”. Un concetto ambizioso, che ha ispirato il quarto album di Travis Scott, Utopia, che in dieci giorni ha già superato il mezzo miliardo di stream in tutto il mondo. L’album, magniloquente e sperimentale, ha una ventina di featuring (tra cui nomi di prima grandezza come The Weeknd, Beyoncé, Drake, Bad Bunny, Future e SZA) e una trentina di produttori, anche se in oltre la metà dei brani è presente lo stesso Scott nei panni del co-produttore. Il risultato è un album fortemente frammentario, di difficile ascolto complessivo (73 minuti sono decisamente troppi per un album del genere), in cui gli spunti interessanti, da un punto di vista musicale, affogano in un mare di spleen, di autotune e di voci che si rincorrono e si confondono l’una con l’altra.

È curioso, inoltre, che alcuni dei brani più interessanti dell’album di colui che è considerato il messia della trap sono decisamente rap, con sonorità quasi old school, come Hyaena e Modern Jam (in cui si sente il tocco inconfondibile dell’ex Daft Punk Guy-Manuel de Homem-Christo). Appare del tutto evidente che Travis Scott si sia apertamente ispirato all’album Yeezus del suo maestro e mentore Kanye West (che appare in veste di producer nei brani Thank God, God’s Country e Telekinesis, non a caso tre dei brani migliori di Utopia), in cui lo stesso Scott ha lavorato per alcuni brani.

Anche se Circus Maximus è prodotto da Scott insieme a Mike Dean, la ritmica marziale ricorda in modo impressionante Black Skinhead di Ye (il nuovo nome di Kanye West). Ecco perchè ieri sera, ad alcuni, l’ospitata inaspettata di Kanye West nel concerto-evento di Travis Scott al Circo Massimo di Roma (annunciato a sorpresa solo una settimana fa, dopo aver provato invano a esibirsi alle Piramidi di Giza e a Pompei) è apparsa quasi un passaggio di consegne tra il maestro e l’allievo. Mentre Kanye West, che ha duettato ieri sera con Scott in Praise God e Can’t tell me nothing, ottenendo grandi applausi, è diventato un brand globale solo dopo aver realizzato grandi album (pensiamo ai capolavori The college dropout, My Beautiful Dark Twisted Fantasy e Yeezus, tre pietre miliari dell’hip hop), con una netta distinzione tra l’artista e il designer, in Travis Scott, che è dal quasi dieci anni un brand globale per catene di fast food, marchi di abbigliamento sportivo, accessori per auto e bevande alcooliche, la distinzione tra artista e influencer è davvero labile. Non a caso uno dei momenti più apprezzati dell’esibizione di Travis Scott a Milano dello scorso 30 giugno è stato quando il rapper di Houston si è tolto le scarpe per regalarle a uno dei suoi fedeli fan in prima fila (una mossa di marketing, con tanto di bisogno indotto, a dir poco geniale).

La musica è solamente una delle numerose divisioni della multinazionale Travis Scott: basti vedere, ieri, come è stato preso d’assalto, prima del concerto, il merchandise ufficiale del rapper, tanto che alle venti erano rimaste soltanto alcune valigette (alla modica cifra di 150 euro) griffate Travis Scott. Nell’epoca del neoliberismo globalizzato, la celebre frase “Produci, consuma, crepa” dei CCCP è ancora più attuale e la musica, da anni liquida e smaterializzata, è l’emblema di come l’arte sia sempre più ridotta a mero intrattenimento, diventando più un flusso di note da ascolto fast food che fanno da sottofondo alle nostre attività che un’esperienza sinestetica, in grado di modificare la nostra percezione e di sviluppare nuove curiosità e interrogativi.

Chi scrive ascolta musica rap dal 1986 e, nel corso degli anni, ha avuto la fortuna di assistere ai concerti di Jay-Z, Snoop Dogg, Busta Rhymes, Public Enemy, De La Soul, Wu Tang Clan, Cypress Hill (cito i primi nomi che mi vengono in mente). Tutti live che mi hanno lasciato dentro qualcosa di profondo, perché al centro c’erano sempre le canzoni, grandi canzoni che, non a caso, sono entrare negli annali dell’hip hop, una cultura nata a New York che, tra pochi giorni, compirà 50 anni. Nella musica di Travis Scott non si cerca la grande canzone, ma soprattutto la creazione di un suono, che crea una determinata percezione nell’ascoltatore: per questo in Utopia compaiono ben 30 produttori, più delle voci coinvolte nell’album. L’impresa riesce in alcuni brani, meno in altri, ma l’impressione è che i testi delle sue canzoni siano più funzionali a creare il giusto sound che a voler dire davvero qualcosa di interessante: davvero un peccato, per chi, come Scott, ha un uditorio sconfinato.

Chi pensava che la tragedia del concerto Astroworld di Houston del 5 del novembre 2021(dove sono morte 10 persone, soffocate dalla calca) avesse fatto maturare una maggiore introspezione nel rapper del Texas, si è dovuto ricredere: nell’album Utopia, tra testi autocelebrativi e vuoto ego tripping, non c’è neanche un accenno a quel terribile incidente. Un altro aspetto che avevamo intuito nei suoi dischi, ma che è ancora più evidente dopo aver visto il suo concerto, è il fatto che Travis Scott, più che un rapper, è un catalizzatore di energie, una sorta di moderno sciamano: il suo concerto, nel quale Travis invita continuamente la folla a saltare insieme a lui, ha qualcosa di tribale, rituale e ancestrale (anche i giocatori della Roma in tribuna vip, tra cui Dybala, El Shaarawy, Cristante e Abraham, si sono divertiti molto e hanno fatto una foto insieme al rapper). Sopra un palco spoglio, dall’aspetto apocalittico e con dietro un muro edificato da amplificatori, Travis rappa e canta relativamente poco sopra i brani messi dal suo dj: non solo perchè buona parte delle sue canzoni è affidata a ospiti esterni, ma perché lo stesso rapper, più che snocciolare rime, ripete continuamente “Yah!YahYah”, “C’mon, let’s go!”, “Jump!Jump!Jump!”.

Lungi da noi criticare l’aspetto più ludico e comunitario di un concerto rap, ma, personalmente, da un artista voglio essere coinvolto da una sua creazione, mentre, se devo ascoltare un voce che incita la folla a ballare, vado direttamente in un club con un dj-set e un vocalist, risparmiando così il costo del biglietto del concerto. Emblematico il momento in cui, durante il brano Delresto (Echoes), uno dei più interessanti di Utopia grazie alla splendida voce di Beyoncé, il palco resta spoglio, con il rapper nei camerini per cambiarsi, con il solo dj a “suonare” la canzone. Di fatto il concerto, per quasi un’ora e mezza, è stato tutto così: il dj mette un brano, Travis fa le “doppie” alle parti cantate dagli altri rapper nell’album, sovrappone la sua voce a quella della base nelle sue parti(usando molto l’autotune) e, principalmente, incita la folla a ballare e saltare. Un’onda anomala di entusiasmo, con oltre 50.000 persone a saltare quasi tutto il tempo, che ieri sera ha allarmato gli abitanti delle zone limitrofe al Circo Massimo. Sono arrivate diverse chiamate ai numeri di emergenza, da parte di persone che pensavano che ci fossero state delle scosse di terremoto nella capitale.

È sicuramente positivo che Roma, che per anni è stata ai confini dell’impero per quanto riguarda i grandi tour internazionali a favore di Milano, sia tornata rilevante per i grandi artisti internazionali (pensiamo, solo nell’ultimo mese, a Guns N’Roses, Depeche Mode, Muse e Imagine Dragons), ma sarebbe anche da chiedere, agli amministratori locali, che ripercussioni possano avere un determinato tipo di concerti (e di pubblico) in zone così archeologicamente fragili come il Circo Massimo. Chi, già amante del mondo sonoro di Travis Scott, si è recato ieri sera al primo concerto mondiale del tour di Utopia, si è sicuramente divertito ed è probabilmente tornato a casa contento (al netto di alcuni attimi di paura quando un deficiente, nel pit, ha spruzzato spray al peperoncino, rischiando di scatenare un pericoloso fuggi fuggi generale) con le sneakers griffate dal rapper ai piedi; chi, più scettico e disincanto verso l’hype del momento, ha visto per la prima volta un suo concerto, probabilmente non è stato convertito dalla pomposa liturgia del messia della trap, nella quale la grande assente era proprio la musica.

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