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(Ansa)
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Justin Timberlake: Everything I Thought It Was è un “Best of” di inediti

Nel sesto album della popstar di Memphis troviamo tutti gli ingredienti del suo successo: irresistibili brani dance, cadenzati midtempo di atmosfera e ballad ricche di pathos

«Ho lavorato a lungo su questo album e mi sono ritrovato con 100 canzoni. Quindi è stato necessario ridurle a 18 e poi… sì, sono davvero entusiasta di questo album. Credo che ogni artista lo dica, ma è il mio lavoro migliore». Con queste parole Justin Timberlake ha raccontato a Zane Lowe di Apple Music la genesi del suo nuovo album Everything I Thought It Was, disponibile da oggi in streaming e nei formati CD, 2LP nero140 grammi, 2LP nero sfumato con effetto marmo 140 grammi, 2LP grigio metallizzato con inserti neri 140 grammi.

Artista poliedrico, cantante, produttore discografico, cantautore e attore, l'ex cantante degli *NSYNC, nei suoi cinque album precedenti, ha sempre rischiato qualcosa, spostando sempre più in alto l'asticella, grazie anche alle produzioni barocche e avanguardistiche di Timbaland. Timberlake ha venduto in carriera oltre 54 milioni di album e 63 milioni di singoli a livello globale, ha vinto dieci Grammy Awards, quattro Primetime Emmy Awards, tre Brit Awards e nove Billboard Music Awards, oltra a una nomination agli Oscar del 2017 per la canzone Can't Stop the Feeling. È stato inoltre insignito del Contemporary Icon Award dalla Songwriters Hall of Fame e del Michael Jackson Video Vanguard Award, ma la sua stella sembra decisamente meno brillante negli ultimi anni. Colpa del mezzo flop di Man of the woods del 2018, che ha cercato di coniugare l'Americana, quel genere tanto in voga nelle radio degli Usa che mescola southern rock, country e blues, con l'electrofunk e le batteria elettronica: un tentativo riuscito solo in parte, perché, a conti fatti, i brani migliori del disco sono quelli più squisitamente electrofunk, di cui Justin è un maestro assoluto.

Sono passati sei anni da quel disco, un periodo in cui Timberlake è parzialmente uscito, non senza aver riportato numerose cicatrici mediatiche, da una pubblica gogna per le sue (presunte) colpe passate nei confronti dell'ex fidanzata Britney Spears (che ha sollevato un polverone mediatico parlando della loro relazione nel memoir The Woman in Me) e per la sfortunata esibizione con Janet Jackson nel Super Bowl del 2004, quella del famoso body “strappato” alla popstar. Justin si è scusato pubblicamente per queste vicende in un post su Instagram nel 2021, ma si sa che negli Usa di oggi si perdona tutto, tranne che la violazione delle severissime regole del politicamente corretto.

Riguardo al titolo dell’album Everything I Thought It Was (Tutto quello che pensavo che fosse), quasi un manifesto programmatico delle sue intenzioni artistiche, Timberlake ha dichiarato: «Credo che il titolo dell'album sia nato da lì, da tutto quello che pensavo che fosse. Lo stavo suonando per le persone intorno a me. Mi dicevano: "Oh, questo suona come tutto ciò per cui ti conosciamo". E poi un altro mio amico ha detto: "Questo suona come tutto ciò che pensavo di volere da te". Era come se questa frase, in un modo o nell'altro, fosse nell'aria. E ho pensato a come alcune canzoni siano più introspettive e altre più simili a quelle per cui penso che la gente mi conosca». La maggior parte dei brani di Everything I Thought It Was sono considerevolmente più brevi di quelli, ad esempio, di The 20/20 Experience, anche se non mancano brani di oltre sette minuti come Technicolor, che in realtà sembrano due pezzi diversi uniti tra loro, con una prima parte più soft e una seconda più ritmata.

L’antipasto del nuovo album è stato Selfish, un singolo pop minimalista e low-key che, però, cresce ascolto dopo ascolto. Scritto da Timberlake, Louis Bell Cirkut, Theron Thomas, Amy Allen e prodotto da Timberlake, Louis Bell e Cirkut, Selfish è accompagnato da un video, diretto da Bradley J. Calder, che esalta il lato introspettivo della canzone: aprendo il sipario sul processo di produzione e fondendo il confine tra performance e realtà, il brano è un ritratto crudo e onesto di Justin come artista e persona. Stesso discorso per l’incipit dell’album, Memphis, un sorprendente brano urban con la batteria elettronica, in cui Justin canta con l’autotune e rappa nella seconda parte sulle difficoltà che ha dovuto sopportare per arrivare in cima alle classifiche: «Prego per la pace dentro di me / E non ci sono più rimpianti / Perché quando ho guardato la mia anima nel Mississippi / Lo rifletteva». Dopo un brano così diverso da quelli che lo hanno reso famoso, ecco i successivi F**kin’Up The Disco, No Angels (in cui c’è lo zampino del dj-superstar Calvin Harris) e Play a riportarci al Timberlake maestro del pop-funk, qui declinato in tre diverse varianti: l'irresistibile electrofunk di F**kin’ Up the disco, la disco/funk No Angels (che potrebbe diventare la nuova Rock your body) e la “daftpunkiana” Play, in cui è evidente il tocco di Timbaland, costruita sopra un basso pulsante, che metterà a dura prova il subwoofer del vostro stereo. I ritmi rallentano nella cadenzata e lunga Technicolor, prodotta anch’essa da Timbaland, che acquista ritmo e colori nella seconda parte del brano. Drown vorrebbe essere una sorta di Mirrors 4.0, ma è lontana dall’ispirazione del brano contenuto nell’album The 20/20 Experience del 2013. Liar è un sorprendente e godibile tuffo nell’afrobeat, ad alto potenziale di tormentone estivo, in cui Justin duetta con la superstar nigeriana Fireboy DML, prima di tornare alle atmosfere del fortunato album FutureSex/LoveSounds del 2006 nella trascinante Infinity Sex che, con i suoi archi anni Settanta, le sue coinvolgenti percussioni e una linea di basso da antologia del funk è un vero e proprio inno alla danza e al piacere: quando Timberlake e Timbaland tirano fuori dal cilindro un brano così, non ce n’è per nessuno. In Love & War Justin abbandona i panni lascivi e sgargianti della popstar da dancefloor per tornare a indossare gli abiti comodi e classici del bravo marito innamorato della sua inseparabile Jessica Biel, in una canzone ad alto tasso glicemico sconsigliata agli ascoltatori più disincantati e cinici. Sanctified, con il featuring del talentuoso Tobe Nwigwe, inaugura una seconda parte dell’album meno riuscita, in cui troviamo brani abbastanza piatti come Flame, Alone e Conditions, che potevano tranquillamente essere esclusi dalla setlist definitiva di Everything I Thought It Was. Non mancano, però, anche nel “lato B” del disco alcune canzoni di assoluto valore: la già citata Selfish; l'adrenalinico disco-funk di My Favourite Drug, con tanto di falsetti, handclap, archi e un basso che ricorda molto da vicino quello di Do Ya Think I’m Sexy di Rod Stewart; il secondo singolo, dopo Better Place, con i redivivi *NSYNC, l’emozionante Paradise, una canzone che esalta le armonie vocali che hanno reso celebre vent’anni fa la boyband di Orlando; la sensuale, accattivante e latineggiante What Lovers Do, in cui è evidente il tocco magico di Timbaland, il Re Mida dell’urban contemporaneo. La conclusiva Conditions racconta il difficile rapporto di Timberlake con la celebrità e con l'immagine di uomo e padre di famiglia perfetto, che ha dovuto mantenere per anni prima che alcuni difetti venissero fuori («Sono meno Superman, più Clark Kent/Vuoi un eroe, non so dove sia andato»).

In conclusione, Everything I Thought It Was è un album-playlist, come conferma la durata-monstre di 77 minuti per 18 canzoni, in cui ciascuno può cercare e trovare quello che vuole, a seconda del mood del momento: irresistibili brani dance-funk, cadenzati midtempo di atmosfera e morbide ballad ricche di pathos. Un sorta di “best of” di brani inediti che riassume il meglio della carriera della popstar, ma che aggiunge poco ( giusto Memphis e Liar) o nulla di nuovo: un album che piacerà ai suoi fan storici, che non punta a trovare un nuovo pubblico. È probabile che la Gen Z rimarrà abbastanza indifferente a queste nuove 18 canzoni di Timberlake, sia per le tematiche che per le sonorità, mentre i millennials o i quarantenni della generazione X lo ameranno e lo ascolteranno in macchina, per darsi la carica mentre vanno al lavoro o mentre accompagnano i figli a scuola. Justin Timberlake è tornato dopo sei anni di silenzio discografico, un’era geologica se si considerano la pandemia e le guerre scoppiate negli ultimi due anni: in un periodo di grandi preoccupazioni e di incertezze, è bello farsi cullare, con Everything I Thought It Was, nella zona di comfort di uno degli ultimi veri artigiani del pop internazionale.

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Gabriele Antonucci