"La zona d'interesse" torna al cinema per la Giornata della Memoria. Come il cinema narra l'inenarrabile
Lifestyle

"La zona d'interesse" torna al cinema per la Giornata della Memoria. Come il cinema narra l'inenarrabile

Il film capolavoro di Jonathan Glazer - vincitore di due Premi Oscar come Miglior Film Internazionale e Miglior Sonoro - ritorna nelle sale italiane come evento in occasione della Giornata della Memoria. Un’analisi di estetica, narrazione e riflessione storica sul potere del cinema nel rappresentare l’orrore dell’Olocausto

La zona d’interesse di Jonathan Glazer torna al cinema il 26, 27, 28 e 29 gennaio in occasione della Giornata della Memoria. Dopo un percorso fatto di riconoscimenti – 171 nomination e 61 premi vinti, tra cui due Premi Oscar, il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, tre BAFTA e il recente titolo di "Film della Critica 2024" assegnato dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – il film sarà nuovamente proiettato nelle sale italiane. Un’opera destinata a raccogliere l’eredità dei grandi capolavori cinematografici che, da Schindler’s List a Il Pianista, da Train de Vie a La Vita è bella, hanno raccontato una delle pagine più buie della storia del Novecento.

La zona d’interesse inizia e finisce con uno schermo nero, perché si tratta di un’opera che va ascoltata oltre che guardata. Le immagini ci mostrano la quotidianità tranquilla di una famiglia tedesca, la famiglia Höss: un marito, una moglie e i loro cinque figli, immersi in un bucolico Eden, fatto di tuffi in piscina, domeniche trascorse a pescare in riva al fiume, tazze di tè alle cinque del pomeriggio e giornate spese in ufficio tra carte e burocrazia. Una situazione apparentemente normale, se non fosse che Rudolf (Christian Friedel) è il comandante del campo di concentramento di Auschwitz e che è in atto la tragica “soluzione finale” decisa dal regime nazista, con l’obiettivo di sterminare tutti gli ebrei e diverse altre minoranze etnico-sociali. Mentre Hedwig (Sandra Huller) prende il tè con le amiche e i bambini vanno in bicicletta immersi nel verde della natura, nel campo accanto vengono deportate, rinchiuse e uccise migliaia di persone: in sottofondo, si sentono i rumori sinistri di prigionieri che marciano legati, e nell'aria si vedono nuvole di cenere provenienti dai forni di cremazione. Ma la sola preoccupazione della famiglia Höss è continuare a vivere nella splendida cornice di quella Zona d’interesse.

Diretto e scritto da Jonathan Glazer e tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, La zona d’interesse è stato presentato in concorso al 76° Festival di Cannes, dove ha ricevuto il Grand Prix Speciale della Giuria. In seguito, si è aggiudicato gli Oscar per il Miglior Film Internazionale e per il Miglior Sonoro, curato da Tarn Willers e Johnnie Burn.

Un film che narra il dramma dell’Olocausto senza mostrarlo direttamente, ma lasciandolo intuire attraverso una raffinata sottrazione narrativa. La straordinaria potenza di La zona di interesse risiede non tanto nella sua trama, quanto nel modo in cui questa viene articolata. I minuti iniziali, immersi nell’oscurità, si configurano come una dichiarazione poetica: il film invita lo spettatore a non giudicarlo per ciò che viene mostrato, bensì per ciò che resta taciuto: l’inenarrabile e l’inimmaginabile orrore che si consuma oltre le mura che separano la villa della famiglia Höss dal campo di sterminio di Auschwitz. Sono le orecchie, che percepiscono a distanza gli spari delle fucilazioni e le urla disperate di chi tenta invano la fuga, a evocare ciò che l’obiettivo della cinepresa sceglie di celare.

D’altra parte già i primissimi filmati realizzati dagli statunitensi una volta entrati ad Auschwitz-Birkenau si basavano sul criterio della disattivazione dell’occhio: George Stevens, il regista che assistette e riprese la liberazione degli ebrei dal campo di Dachau, poteva inquadrare ciò che aveva di fronte, ma la forma delle immagini non discendeva dal suo occhio, cioè da una pratica del vedere ancorata alla memoria, perché non esistevano precedenti di quanto stava osservando: il suo occhio non era in grado di riconoscere il reale e quindi applicare uno schema di senso. Secondo Serge Daney, direttore dei Cahiers du cinéma, l’importanza di quei primi filmati stava proprio nell’innocenza dello sguardo del regista - inteso anche come afasia - ovvero l'incapacità di attivare il linguaggio del cinema, disinnescato dallo shock del reale. In altri termini, un’incapacità di attestare assumendo in un discorso compiuto i frammenti di quell’orrore. L’operatore, dunque, si limita a compiere i gesti del cinema: non filma in modo compiuto, tanto che quei materiali rimangono allo stato grezzo. Il risultato finale sarà un insieme di documenti pronti per essere utilizzati come prove giudiziarie contro la parola negazionista dei criminali di guerra nazisti, di fatto smentendola.

Sentire ciò che non si può vedere

Il film si apre con un’overture musicale. Lo schermo è immerso nel nero assoluto, mentre gli spettatori vengono lentamente introdotti nel microcosmo della famiglia Höss e nel punto di vista che il regista desidera far loro adottare. Parlare di “punto di vista” appare quasi paradossale, poiché tutto viene mediato da un altro senso, l’udito. Con questa scelta, Glazer sovverte la gerarchia tradizionale dei sensi, che nel linguaggio cinematografico attribuisce alla vista il ruolo di primato assoluto.

La musica, volutamente parsimoniosa, appare solo in momenti circoscritti e strategici: durante l’introduzione e il finale, per accompagnare l’ingresso e l’uscita dallo spazio narrativo, oltre a rare incursioni, come nelle scene girate con la camera termica. Onnipresenti sono invece i rumori provenienti dal campo di concentramento, che mai verrà mostrato. Grida strazianti, spari, il sordo arrivo dei treni e il rombo sinistro dei forni crematori creano un sottofondo incessante, evocando un inferno sulla Terra celato alla vista, ma percepibile attraverso l’udito. Il muro che separa la villa dalla realtà del campo diventa una barriera fisica e metaforica che nasconde l’indicibile.

Laddove opere precedenti – come Son of Saul di László Nemes – adottavano una messa a fuoco selettiva per rendere indefiniti i dettagli del campo di concentramento, La zona di interesse opta per una soluzione ancor più estrema: l’eliminazione totale della dimensione visiva degli interni del campo. Ciò porta a un'altra scelta radicale: la totale assenza, ancora una volta visiva, dei prigionieri di Auschwitz. Il film si concentra infatti sui carnefici.

La negazione visiva e il sogno della famiglia Höss

La scelta di escludere deliberatamente l’elemento visivo rivela ulteriori livelli di complessità. Per la realizzazione del film, è stato cruciale il riferimento a una serie di fotografie autentiche della famiglia Höss e della loro abitazione confinante con il campo di concentramento. Glazer e il suo team si sono basati su circa venti immagini per costruire un’accurata rappresentazione scenografica della casa e, soprattutto, del giardino, meticolosamente curato da Hedwig, moglie di Rudolf.

La vera casa della famiglia Hoss

Facendo riferimento a un'inquadratura ricorrente, quella della piccola piscina nel giardino della casa, Glazer sottolinea in un’intervista: “È interessante notare che non hanno mai fotografato il retro di questa inquadratura e il retro di questa inquadratura mostra il campo. Ciò che si vede in questa immagine è una casa che potrebbe essere ovunque. Questo è quello che volevano vedere ed è quello che volevano mostrare a sé stessi, credo. Ma è per questo che non hanno scattato nessuna fotografia da un'angolazione diversa. Noi l'abbiamo fatto”.

La famiglia Höss, dunque, vive un sogno, una fantasia che Rudolf stesso descrive nella sua autobiografia: “Avere una fattoria che diventasse la nostra patria, il focolare per noi e i nostri figli. Dopo la guerra intendevo infatti abbandonare il servizio attivo e comprare una fattoria”. Essi vivono il loro sogno, cercando però di rimuovere il fatto che a separarli dalla sofferenza, dall'inferno di Auschwitz, sia soltanto un muro.

Tuttavia, è impossibile non percepire ciò che accade oltre quel muro, e lo si comprende grazie a quegli elementi stridenti che incrinano la facciata di un’esistenza apparentemente idilliaca: una delle figlie soffre di insonnia senza un motivo apparente, la madre di Hedwig, ospite per un breve periodo, decide di partire improvvisamente senza avvisare… Tra tutti, però, è proprio Rudolf a manifestare i segni più evidenti di un’instabilità profonda. Durante la festa organizzata in suo onore per celebrare un’operazione militare che porta il suo nome, appare incapace di relazionarsi con gli altri, completamente assorbito da pensieri agghiaccianti: valuta logisticamente come sarebbe possibile gassare tutti i presenti. Questa sensazione di disagio raggiunge il culmine nel finale del film, quando, mentre si allontana dal suo ufficio, è sopraffatto da conati di vomito.

Iperrealismo e innovazioni digitali

Scegliendo di raccontare i carnefici anziché le vittime, Glazer si è trovato di fronte a una sfida estetica e narrativa particolarmente complessa. La maggior parte dei film sull’Olocausto punta sull’emotività dello spettatore, che, di fronte a immagini di indicibile orrore, non può che empatizzare, sostenuto dagli strumenti tradizionali che il cinema utilizza per suscitare emozioni: colonne sonore struggenti, primi piani di volti segnati dal dolore, e altre strategie che accentuano l’impatto emotivo. Glazer, invece, sceglie una strada radicalmente diversa, forse più ostica per il pubblico di massa, ma assolutamente coerente con la sua visione: un’estetica che privilegia la freddezza, l’oggettività e la totale assenza di connotazioni emotive.

Dal punto di vista registico, Glazer predilige piani medi, evitando di avvicinarsi troppo ai personaggi. La macchina da presa rimane per lo più fissa, con punti di vista frontali e simmetrici. La profondità di campo è sempre totale: ogni elemento all’interno dell’inquadratura è ugualmente a fuoco, senza gerarchie visive che privilegino un soggetto rispetto ad altri. I personaggi, inoltre, sono quasi sempre centrati nell’inquadratura, in una disposizione che trasmette neutralità. In questo modo, il film cerca di astenersi da ogni giudizio implicito che potrebbe essere veicolato da scelte prospettiche o stilistiche.

Anche la fotografia segue un approccio rigorosamente naturalistico, eliminando del tutto l’uso di luci artificiali. Si utilizzano esclusivamente le fonti luminose disponibili in scena, come le lampade della casa, o la luce naturale dell’ambiente. Questa impostazione tecnica sottrae al film quelle caratteristiche tipiche del linguaggio cinematografico che solitamente servono a veicolare emozioni o idee. Ogni scelta visiva – dall’inquadratura all’illuminazione – costruisce inevitabilmente un punto di vista soggettivo, che implica una presa di posizione. Glazer, invece, aspira a una rappresentazione il più possibile oggettiva, eliminando ogni traccia di artificio. Questo approccio diventa un “dogma”, come lui stesso lo definisce in varie interviste, che permea ogni aspetto della realizzazione del film, a partire dalle ambientazioni (tutte nei pressi di Auschwitz).

In un primo momento, si era addirittura pensato di girare nella vera casa della famiglia Höss. Tuttavia, essendo l’edificio inagibile, si è deciso di restaurare una casa vicina, rendendola quasi identica all’originale. La stessa attenzione maniacale è stata dedicata ai costumi, minuziosamente ricostruiti a partire dalle fotografie storiche, utilizzando, dove possibile, capi d’epoca autentici, come nel caso della ragazza polacca protagonista delle scene girate con le camere termiche.

La scelta delle camere termiche per le scene ambientate di notte sono anch’esse in linea con il vincolo autoimposto di girare solo con luci naturali. In assenza di illuminazione notturna si è optato per queste particolari videocamere militari, capaci di catturare il calore anziché la luce. Il risultato è la creazione di sequenze oniriche, che sembrano appartenere a un mondo parallelo, opposto a quello dei protagonisti. Un mondo in cui la pietà e il bene ancora esistono.

Estetica della videosorveglianza: “Big Brother in a Nazi house”

La straordinaria estetica di The Zone of Interest emerge anche dalla scelta di girare in digitale ad altissima definizione, utilizzando una risoluzione in 6K che non cerca in alcun modo di mascherare la sua natura tecnologica e contemporanea. Questa decisione si distacca nettamente dall’estetica classica dei film storici hollywoodiani, spesso caratterizzati da una “patina d’epoca” che filtra e ammorbidisce le immagini per evocare una sensazione di tempo passato. Al contrario, Glazer punta a un’estetica che dia l’impressione di trovarsi “realmente lì”, come se la macchina da presa fosse uno strumento moderno catapultato nel passato per catturare la realtà con una nitidezza quasi clinica.

Le immagini risultano straordinariamente cristalline, ricche di dettagli fino al limite dell’iperrealismo. La profondità di campo, caratteristica distintiva del digitale ad alta definizione, non viene nascosta né mitigata – come accade spesso quando si cerca di imitare l’estetica della pellicola – ma esaltata per creare una percezione visiva fredda e tecnologicamente avanzata. Questa resa hi-tech e ultramoderna contribuisce a costruire un’estetica che si colloca in netto contrasto con il contenuto storico del film, generando un effetto straniante che amplifica l’impatto del racconto.

Anche il metodo di ripresa adottato per il film è atipico e radicale. All’interno della casa sono state installate dieci videocamere e venti microfoni, consentendo la registrazione simultanea di piani sequenza lunghi fino a dieci minuti, limitati solo dalla capacità delle schede di memoria. Queste riprese, poi, venivano assemblate in fase di montaggio.

Gli operatori stavano nella cantina della casa, il regista e il resto della crew dall'altra parte del muro che divideva la casa dal campo di concentramento. In altre parole, gli attori erano da soli, in modo da farli immergere nelle ambientazioni e nella storia, lasciando spazio all'improvvisazione.

Con The Zone of Interest, Glazer spinge questa impostazione estetica fino alle estreme conseguenze, avvicinandosi a un’estetica della sorveglianza. Lo sguardo adottato dal film, definito dallo stesso regista come “Big Brother in a Nazi house”, assume una qualità panottica, tipica delle immagini registrate da videocamere di sicurezza. Questa prospettiva iperrealistica e ipertecnologica non solo rappresenta un’esperienza visiva innovativa, ma utilizza le tecnologie più avanzate disponibili per arricchire l’effetto complessivo.

La banalità del male

La pellicola si pone come una delle migliori interpretazioni del concetto di banalità del male formulato da Hannah Arendt nel diario che scrisse durante il processo ad Adolf Eichmann. Nella prima parte del film viene rappresentata la quotidianità di una famiglia apparentemente ordinaria: non mostri disumani, come spesso vengono dipinti in altri film, ma individui comuni, abituati e anestetizzati alla violenza che si consuma a pochi passi dalle loro vite. La loro assuefazione si traduce in una sorta di cecità morale. Qui torna con forza il tema della rimozione visiva. Nella seconda parte, invece, il film si sposta sulla spietata burocrazia della guerra, mostrando come il genocidio venga pianificato con freddezza e metodicità negli uffici, quasi fosse un lavoro amministrativo come un altro. Ed è proprio sul finale che, quando Rudolf viene immobilizzato dai conati di vomito, è come se si squarciasse il tempo.

Mentre scruta il lungo e oscuro corridoio del suo ufficio berlinese, intravede una luce che emerge da una porta. La soglia non conduce al presente narrativo, ma catapulta lo spettatore nell’Auschwitz odierno, museo delle atrocità di cui il protagonista è responsabile, in cui si assiste alle quotidiane pulizie di quello che un tempo fu una fabbrica di morte. Si ha l’impressione che il protagonista, per un fugace momento, riesca a percepire quello che la sua creazione sarà in futuro, e cioè la museificazione degli orrori da lui prodotti.

Glazer, però, non si limita a rappresentare il concetto di banalità del male. Va oltre, sollevando interrogativi ancora più universali e profondi. Non si tratta solo della banalizzazione del male, ma della riflessione su come noi, oggi, ci comporteremmo in circostanze simili. Come osserva James Wilson, produttore del film: “Non siamo nazisti, ma abbiamo alcuni degli stessi comportamenti che vediamo nella famiglia Höss: di compartimentazione, distogliere lo sguardo, ignorando ciò che accade oltre il muro”.

Non resta quindi che inseguire la speranza tenuta viva da chi oppone resistenza a tali atrocità, incarnata nel film dalla ragazza polacca che di notte, a rischio della propria vita, tenta di nascondere cibo nei luoghi di lavoro dei prigionieri.

La zona di interesse si presenta quindi non solo come un’esperienza di visione. O sarebbe meglio dire, di non visione. Lo spettatore è posto nella condizione di voltare continuamente lo sguardo dall’altra parte, mentre il film stesso evita deliberatamente di superare quel muro. È in questo gesto di distogliere lo sguardo che si annida una riflessione profonda: ignorare consapevolmente le tragedie o, peggio, sostenerle, è un atto profondamente disumano. È la quotidianità del male.

TUTTE LE NEWS DI LIFESTYLE

I più letti

avatar-icon

Chiara De Zuani