«È affascinante da vedere e da toccare, ma spesso significa anche sfruttamento di chi lo estrae, finanziamento a gruppi armati, riciclaggio». Lo dice a Panorama Ivana Ciabatti, ceo di Italpreziosi, azienda leader nel distretto di Arezzo che ha intrapreso un percorso etico per la produzione fatto di certificazioni, analisi dei Paesi fornitori, tracciabilità. Così la bellezza è buona.
Un abito da gentiluomo alla corte di Enrico VIII costava un’oncia d’oro. Un completo sartoriale stile Giuseppe Conte (con pochette) costa circa mille e 500 euro, un’oncia d’oro. Morale: si sono svalutati i ruoli istituzionali ma in 500 anni quel metallo affascinante e insanguinato non ha mai perso valore.
Abbiamo visto gli atleti italiani alle olimpiadi di Tokyo morderlo dieci volte a prova di incisivi, abbiamo trovato in fondo a un cassetto un orecchino della nonna, abbiamo in casa il dvd di Agente 007 Missione Goldfinger. E sappiamo che nell’ultima fase della lunga stagione Covid mister Gold è tornato di moda, rientrando discreto nei caveaux delle banche centrali e in quelli delle famiglie che se lo possono permettere.
«È il bene rifugio supremo duemila anni. È lingotto, gioiello, riserva aurea, l’unica moneta non di carta. Oggi l’insicurezza necessita di ancoraggi». C’è l’oro del Reno e l’oro di Arezzo, il più antico distretto europeo. Di quest’ultimo non si può parlare senza chiedere lumi a Ivana Ciabatti, ceo di Italpreziosi, azienda leader in Italia, 6,8 miliardi di fatturato nel 2020, unica società privata a contribuire alla formazione del prezzo di Bloomberg. Ex presidente di Federorafi e prima donna a battagliare da 35 anni in un mondo di uomini, Ciabatti è figlia di contadini e parte quasi 40 anni fa da Castel Focognano, nel Casentino, mentre frequenta Economia e Commercio. Una storia italiana della serie: pareva impossibile.
«Non ci credeva nessuno, ora tratto con chi estrae l’oro nel mondo. All’inizio mi mantenevo agli studi lavorando come operaia nel settore. Negli anni Ottanta ci fu il boom: l’oro passò da 3 mila lire al grammo a 25 mila. Osservavo il cielo, sdraiata sull’erba nelle notti stellate, e sognavo di viaggiare. L’avrei fatto grazie all’azienda fondata nel 1984».
E attraverso una professione unica, da film d’avventura: trattare l’acquisto dell’oro alla borsa di Toronto, finire nei luoghi più sperduti dove c’è un filone da esplorare, una concessione da conquistare, una miniera da valorizzare. «Abbiamo una piccola partecipazione in miniere in Colombia e Messico, concessioni negli Stati Uniti. I “competitor” più agguerriti in Europa sono inglesi e svizzeri mentre la Cina è il primo paese per estrazione».
Mostra i segreti della fusione, spiega la sublimazione in fonderia. È un vulcano. Ha in mano un lingotto da un chilo («È un iPhone che vale 49 mila euro ma pesa un po’ di più»), percorre come una mamma l’azienda con 70 dipendenti, metà sono donne. E con le due figlie Alice e Silvia nei ruoli chiave, ha da tempo deciso di cambiare le regole, di lanciare una nuova sfida al mercato: quella della sostenibilità. Così ad Arezzo si parla di oro etico e si vive dentro una rivoluzione rispetto alla tradizione millenaria di un metallo sempre uguale a se stesso. All’inizio le risposte dei colleghi erano sorrisi di degnazione, oggi la inseguono tutti.
«Dietro l’oro lucido e liscio c’è un mondo ruvido. È bello da toccare ma significa anche sfruttamento dei minatori, finanziamento di guerre e di gruppi armati, traffico di armi, riciclaggio. Creare un percorso etico significa affinare le procedure. Abbiamo cominciato da autodidatti, siamo diventati innovativi, abbiamo introdotto certificazioni obbligatorie. Partiamo dall’analisi dettagliata dei fornitori, aggiungiamo l’analisi del rischio dei paesi di provenienza, monitoriamo la governance e le leggi, garantiamo la tracciabilità. I nostri partner si devono adeguare agli standard di conformità di Italpreziosi.
L’oro etico ha i suoi costi, ma è il futuro». Offre anche soddisfazioni: è certificato dalle Nazioni Unite, che appoggiano il progetto Fairmined a sostegno di cooperative di minatori artigiani che lavorino eliminando il mercurio, puro veleno se rilasciato negli stagni e nei fiumi. Italpreziosi fornisce i macchinari a molte cooperative nel mondo che valorizzano e non discriminano le donne lavoratrici.
Women in mining è la battaglia di un’imprenditrice che è riuscita a spezzare i pregiudizi di un mondo esclusivamente maschile. «Ricordo il primo contatto con gli arabi: non volevano parlarmi perché donna e mi hanno fatto fare anticamera per tre giorni. Se sei donna è tutto più difficile, ma se dimostri capacità ti rispettano. Non bisogna mai arrenders. Quindici anni fa in Ghana stesso cliché: il re era proprietario di miniere ma mi parlava solo attraverso un intermediario. Alla fine mi nominò “regina madre”, che significava responsabile economica».
L’oro maneggiato con cura può creare opportunità: Ciabatti ha realizzato in Brasile una scuola orafa con bambini abbandonati ed è riuscita a riaprire quella di Arezzo, chiusa 10 anni fa. «Ho convinto istituzioni e famiglie, sono andata a incontri pubblici: questa è l’economia reale di un distretto che crede nel futuro».
Un futuro rallentato dalla pandemia, periodo di sospensione dell’esistenza, non degli affari. «Mentre molti nostri concorrenti si sono fermati, noi non abbiamo mai chiuso. Tutti avevano problemi enormi di logistica, noi ci siamo inventati anche dieci scali pur di raggiungere i clienti. Siamo riusciti a dare risposte che altri non sapevano dare, all’italiana. Il nostro Paese ha bisogno di un governo normale, di tanta meritocrazia e di consapevolezza della bellezza che ci circonda e non sappiamo valorizzare».
La ripartenza è avvenuta, a questo punto Ivana Ciabatti una dritta ai lettori di Panorama la deve. «Consiglio di investire in oro il 10 per cento dei beni e lasciarlo lì. Tenere tutti i soldi in banca non è mai saggio. Ma non sto scoprendo niente di nuovo: i nonni tramandavano l’oro da generazioni a generazioni, l’anello della nonna alla nipote. È il momento di tornare alle cose semplici».
Da oro nasce oro, slogan con due significati. Il primo riguarda la nuova sede dove innovazione e sostenibilità saranno ancora più incisive: asilo nido, mensa a metri zero, palestra, coltivazione bioponica. «Siamo in ritardo per via di permessi che non arrivano. Ma non ci si può fermare, abbiamo bisogno di installare nuovi macchinari realizzati da noi: oggi produciamo 30 lingotti da un chilo in un’ora. Nella nuova sede saranno 200».
Il secondo è qualcosa di completamente fuori dagli schemi: la fondazione Rondine cittadella della pace, realizzata e sostenuta nel borgo medioevale di Rondine, dove gruppi di ragazzi di Paesi in guerra fra loro vengono invitati a trascorrere un periodo per conoscersi, studiare insieme. E poi tornare a casa sapendo che si può essere amici del vicino, oltre ogni ostilità. È l’oro immateriale, vale di più dell’anello della nonna.
