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Walter De Silva: «La mia supercar cinese nata in Emilia»

Walter De Silva: «La mia supercar cinese nata in Emilia»

Il grande designer ha realizzato per la joint venture italo-sino-americana un’auto avveniristica. Un bolide «pulito» che verrà prodotto nella Motor Valley e ambisce a fare concorrenza a miti come Ferrari e Lamborghini. Con un miliardo di euro d’investimento. «Perché hanno pensato di costruirlo qui? Perché se si vuole aggiungere forza vitale, amore e passione per l’automobile, allora bisogna venire nel nostro Paese».


E’ rossa, è velocissima ed è nata nella Motor Valley emiliana. Ma non è la Ferrari: si chiama Hongqi S9 ed è la prima automobile cinese progettata e fabbricata in Italia. A produrla, probabilmente a Reggio Emilia ma la sede dello stabilimento non è stata ancora definita, sarà una joint venture formata da una nuova società specializzata nell’ingegneria e nel design, la Silk Ev, e da una delle più grandi case automobilistiche cinesi, la Faw (il gruppo già in gara per rilevare l’Iveco). L’investimento previsto in Italia dalla neonata Silk Ev-Faw è di circa un miliardo di euro.

Controllata dallo Stato cinese, la Faw ha venduto nel 2019 quasi 3,5 milioni di vetture e vanta una decina di marchi tra cui Hongqi (che significa bandiera rossa), il più antico brand del Paese, specializzato in berline e suv di alta gamma. Silk Ev, con uffici a Modena, New York e Changchun, è presieduta da Jonathan Krane, un poliedrico imprenditore americano che da una quindicina di anni fa affari con la Cina, dove ha vissuto dal 2004 al 2009, occupandosi di intrattenimento, gestione patrimoniale, Etf e finanza. È anche cofondatore di una squadra di calcio di New York, la Queensboro Fc. Inoltre all’avventura partecipa come partner industriale la Dallara, costruttore di auto da competizione. L’alleanza tra Krane e la Faw è scoccata nel maggio del 2020, nell’ambito della Belt & road initiative: oltre ai fondi americani, a sostenere il progetto c’è un consorzio di istituzioni finanziarie cinesi, tra cui la Industrial and Commercial Bank of China, la Bank of China e la Bank of China International. Il primo frutto della nuova joint venture italo-americana-cinese, che sarà seguito da altri modelli elettrificati costruiti in Emilia e in Cina, sarà l’hypercar ibrida Hongqi S9, spinta da un motore V8 unito a un propulsore elettrico.

A progettarla è uno dei più famosi designer di auto al mondo, l’italiano Walter De Silva, vicepresidente per lo stile e il design della Silk-Faw. Nato 70 anni fa a Lecco, De Silva ha firmato vetture di grande successo. Per l’Alfa Romeo ha disegnato modelli iconici come la 156 e la 147, entrambe insignite del premio Auto dell’anno. Nel 1999 è passato al gruppo Volkswagen: prima alla Seat e poi all’Audi, dove è diventato responsabile del design non solo delle vetture dei quattro anelli (di cui ha ridisegnato il frontale) ma anche della Lamborghini. La sua carriera è proseguita con la nomina, nel 2007, a capo del Centro stile Volkswagen Group, con la supervisione di tutti i marchi della casa tedesca. De Silva ha firmato, tra le altre, la sesta e settima generazione della Golf. Dopo aver lasciato la Germania nel 2015, nel 2017 è stato assunto dal produttore cinese Baic per creare lo stile del marchio di auto elettriche ArcFox, incarico che ha abbandonato nel 2020.

Com’è avvenuto il suo incontro con Silk Ev-Faw?

Grazie a due amici, uno che lavora alla Dallara e l’altro che avevo incontrato tempo fa alla Bugatti: mi hanno informato che questa nuova joint venture era interessata ad avermi come responsabile del design. Così ho incontrato Krane e sono rimasto affascinato dal progetto e dalla squadra che sta creando. Poi la Faw la conosco bene, perché quando ero in Volkswagen ho vissuto l’esperienza della joint venture tra il gruppo tedesco e quello cinese.

Lei che ruolo avrà in questa avventura?

Dovrò progettare e disegnare l’intera gamma di queste nuove auto, che dovrebbe essere formata da cinque o sei vetture. Due di queste verranno prodotte in Italia, le altre in Cina.

Krane però non ha esperienza nell’auto. Questo non la spaventa?

No, lei dovrebbe vedere che team sta mettendo in piedi! Sono tutti uomini dell’auto e di altissimo livello.

Perché secondo lei americani e cinesi hanno scelto di venire a produrre questa hypercar proprio in Emilia?

Mi sono dato una risposta logica ma anche un po’ «di pancia»: quando due grandi potenze finanziarie e industriali come Stati Uniti e Cina si mettono insieme, certamente l’impatto è forte. Ma se si vuole aggiungere forza vitale, amore e passione per l’automobile, allora bisogna venire in Italia. Così a quelle due potenze se ne aggiunta una terza, quella dell’Italia: la creatività.

Che peso ha Dallara?

Ha un ruolo fondamentale sia per la messa a punto dell’aerodinamica sia per la costruzione dello chassis di una vettura ad altissime prestazioni.

Qual è l’originalità della Hongqi S9?

Da un punto di vista del design mi sono ispirato a questa definizione: cercare il futuro nel classico. Quindi portare ai livelli più avanzati l’aerodinamica e la componentistica, ma nello stesso tempo cercare la bellezza.

Quali saranno gli avversari con cui la Hongqi S9 dovrà confrontarsi?

Intanto ci inchiniamo davanti a case che hanno una storia e un pedigree incredibili. Certo, l’ambizione è di arrivare ai risultati raggiunti dai grandi marchi mondiali come Ferrari, Lamborghini, Porsche, Aston Martin, ma con grande rispetto a modestia. Loro hanno un patrimonio culturale alle spalle che è gigantesco.

Lei ha lavorato con italiani, spagnoli, tedeschi e cinesi: quali sono le differenze che ha incontrato?

La grande diversità secondo me è nella capacità di programmare e di reagire all’emergenza: i tedeschi sono insuperabili nella programmazione e nella pianificazione, mentre gli italiani lo sono nell’emergenza. Quando c’è un’emergenza i tedeschi ripianificano, ed è un disastro, mentre gli italiani la risolvono. La cosa interessante è che tedeschi e italiani lavorano molto bene insieme, mentre non capita lo stesso con cinesi, giapponesi o francesi.

E che caratteristiche hanno i cinesi?

Sono un po’ troppo burocratici: per non cadere in errore pianificano ancora di più dei tedeschi e danno poco spazio all’intuizione. Invece nell’auto spesso il cuore conta molto e bisogna lasciarsi trasportare dalla passione.

Qual è tra le auto che ha disegnato, quella a cui è più affezionato?

Sono tre: l’Alfa Romeo 156, che mi ha dato la notorietà nel mondo; l’Audi A5 che mi è costata una gran fatica ma mi ha regalato grandissime soddisfazioni; e poi c’è una vettura straordinaria, la Golf, che è difficilissima da realizzare perché deve essere ogni volta diversa ma anche uguale a se stessa. Quando ti chiedono di disegnare una Golf, ti viene freddo.

Il Dragone alla conquista dell’Italia

L’alleanza tra gli americani della Silk Ev e i cinesi della Faw per realizzare auto sportive in Italia e in Cina è stata accolta con grande entusiasmo. Soprattutto in Emilia Romagna, dove sorgerà la fabbrica della hypercar disegnata da Walter De Silva. Ma tanta euforia forse è un po’ esagerata. Intanto alcuni modelli della joint venture saranno fabbricati in Cina. E poi provare a fare concorrenza a Ferrari e Lamborghini non sarà uno scherzo. Vedremo. Fatte queste premesse, l’iniziativa che coinvolge uno dei maggiori produttori di auto cinesi dimostra il crescente interesse del Dragone verso il made in Italy e un riconoscimento alla nostra capacità creativa e costruttiva.

Un interesse che spazia in molti settori e che, però, non sempre è gradito. È ancora la Faw, per esempio, ad aver avanzato di recente un’offerta per acquistare l’Iveco, il produttore di furgoni e camion che fa capo agli Agnelli. Ma l’eventuale passaggio della società ad un gruppo cinese è stato guardato con una certa ostilità da politici e sindacalisti italiani. Mentre il governo ha addirittura bloccato l’acquisizione del 70% di Lpe spa, azienda lombarda che opera nel settore dei semiconduttori, da parte del gruppo Shenzen investnent holdings: un settore troppo delicato per cederlo ai cinesi.

Secondo i dati dell’osservatorio di Kpmg sulle fusioni e acquisizioni in Italia e all’estero, nel decennio 2001-2010 i primi investitori nel nostro Paese erano francesi, americani e inglesi. Nel decennio successivo, dal 2010 al 2020, sono diventati americani, francesi e cinesi, che con 109 acquisizioni per 24,2 miliardi di euro hanno conquistato il terzo posto. Nella relazione approvata a fine 2020 dal Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) sulla tutela degli asset finanziari nazionali strategici c’è una parte dedicata espressamente alla Cina: vi si legge che a fine 2019 «risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare Cinese e 135 con sede principale a Hong Kong, attraverso almeno un’impresa partecipata. Le imprese italiane partecipate da tali gruppi sono in tutto 760 e la loro occupazione è di poco superiore a 43.700 unità, con un giro d’affari di oltre 25,2 miliardi di euro». Un risultato che non deve sorprendere: la Cina è diventata una superpotenza economica e con i suoi capitali si fa largo in Italia come nel resto del mondo. Il problema è che Pechino non è un Paese normale, il confine tra interessi aziendali e statali è labile e il rischio della concorrenza sleale è sempre presente.

Nel carniere della Cina sono finite imprese di tutti i tipi, dalla Candy alla Pirelli, dall’Ansaldo Energia al gruppo Ferretti Yacht, da Krizia alla Moto Morini e alla Benelli. Proprio la storia della moto Benelli esprime bene vantaggi e svantaggi di finire in mano ad un gruppo cinese. La casa motociclistica italiana dal 2005 è di proprietà del gruppo Qianjiang Motor, una società cinese che a sua volta è controllata dalla Geely (azionista in Svezia della Volvo). In questi ultimi anni la Benelli è cresciuta tantissimo a livello globale e un suo modello, l’enduro Trk 502, è diventato il più venduto in Italia superando la Bmw Gs. È la prima volta dagli anni Novanta che una moto italiana non conquistava il primo posto tra le best seller. Peccato che le moto Benelli sono italiane solo di nome, visto che sono prodotte in Cina. In altre parole, nella sede Benelli di Pesaro ci sono i reparti di ricerca e sviluppo, design, marketing, commerciale Europa, post-vendita, amministrazione e direzione. Ma la produzione è in Asia.

Nel caso della Benelli, dunque, l’azienda è stata salvata. Ma i vantaggi per il sistema Italia sono stati modesti, mentre i cinesi hanno potuto appropriarsi di un marchio storico proponendo nel mondo un prodotto di successo, onesto, economico e disegnato nel nostro Paese. In altri casi l’ingresso dei cinesi ha funzionato abbastanza bene (Pirelli, Krizia e Candy, per esempio) in linea con i normali rischi e opportunità delle acquisizioni dall’estero. In altri ancora si è rivelato un fallimento: l’acquisto dei trattori Goldoni da parte di un gruppo cinese è durato solo cinque anni e la società italiana è stata salvata da un’azienda belga.

Con le crisi del 2010 del 2020 tante medie imprese italiane hanno trovato e troveranno ancora nei capitali cinesi un’ancora di salvezza per non chiudere i battenti. Ma si potrebbe fare si più. Sarebbe bello trasformare questo flusso di investimenti cinesi in un’opportunità per l’Italia, indirizzandoli laddove siamo più deboli: per esempio nella produzione di batterie per auto elettriche o, addirittura, nella costruzione di stabilimenti automobilistici per conquistare l’Europa.

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