Hamburger senza manzo, salsicce prive di maiale, sushi che fa a meno del pesce. È un business in crescita tumultuosa, che entro il 2024 varrà oltre 23 miliardi di dollari. E sarà sempre più in competizione con le tradizioni gastronomiche.
Come antipasto di una sfinente maratona di calorie, la cena è servita in un ristorante messicano: un trionfo di tacos di pollo affogati di formaggio e salsine assassine. Il giorno dopo, il pranzo si svolge in un raffinato locale asiatico di cucina giapponese. Piatto forte, un vassoio di sushi, o meglio di uramaki: rotoli di riso nero con cipolla caramellata e intingoli assortiti, un cuore di pesce sminuzzato o qualcosa del genere. Quella sera, un classico hamburger americano abbondante di farciture, prima però una doppia merenda: crocchette impanate e poi chorizo, una sorta di salsiccia dominata da spezie decise.
Il delirio di pietanze vorrebbe dimostrare un teorema ossuto: il cibo del futuro è già presente, pronto da ordinare a un cameriere o da preparare in casa. Ogni boccone inghiottito dal cronista di Panorama è stato realizzato con prodotti completamente vegetali. Ingannando occhi, tatto e palato, complice la copertura di molti (troppi) condimenti, confezionando un’esperienza di consumo che soppianta quella tradizionale stordendo le papille.
Ci troviamo a Barcellona, a poche centinaia di metri dalla chiesa Sagrada Familia, l’eterna incompiuta dell’architetto Antoni Gaudí. Siamo nei laboratori di Heura Foods, realtà innovativa che ha tradito la perenne provvisorietà della zona ultimando la sua opera: affermare una via mediterranea per le proposte vegane, rendendole meno tristi o dai sapori troppo distorti ed esotici; usare un ingrediente familiare come l’olio extravergine d’oliva per simulare la succosità della carne, riducendone i grassi saturi dell’85%. Riprodurne la consistenza accorciando la ricetta, ricorrendo a soia o piselli come sorgenti di proteine e duellando con l’obiezione che spesso frena questi pasti: la paura che finiscano per intossicarci di composti chimici e altre porcherie artificiali.
Heura s’inserisce in un mercato «dalla crescita stellare» (lo scriveva il sito economico americano Cnbc.com pochi giorni fa), che secondo Euromonitor varrà 23,4 miliardi di dollari entro il 2024 e, a detta di Boston Consulting Group, arriverà a 290 miliardi nel 2035, considerando tutte le proteine non ricavate dagli animali. Una miniera di denaro governata da player statunitensi e britannici che, come inevitabile effetto collaterale, minaccia le tipicità e le filiere locali, a cominciare dal made in Italy. Favorendo, implicitamente, un nuovo colonialismo alimentare, con il rischio concreto dell’appiattimento in una globalizzazione gastronomica.
La start-up spagnola è riuscita a farsi largo raccogliendo 12 milioni di dollari dagli investitori, mentre altri quattro tondi sono arrivati dal basso. È successo lo scorso giugno, quando 3.000 sottoscrittori, in meno di 24 ore, hanno voluto dare il loro contributo per unirsi a quella che, prima di essere un’impresa, è un movimento. Il suo manifesto filosofico è «l’altruismo edonistico», motto citato poche settimane fa anche dal New York Times raccontando le ultime frontiere del cibo: il piacere di fare del bene.
Al pianeta e agli animali, visto che nel solo 2020 Heura dichiara di aver salvato la vita a più di 400.000 bipedi e quadrupedi. Ha risparmiato all’ambiente l’impatto di crescita, gestione e lavorazione delle loro carni, evitando il consumo di più di 3,1 miliardi di litri d’acqua, tagliando emissioni pari a 6,7 milioni di chilogrammi di CO2, l’equivalente di 27 milioni di chilometri percorsi in auto. In parallelo, la società ha triplicato il fatturato del 2019 e oggi è presente in 16 Paesi, Italia inclusa, dove dopo alcune avanguardie in supermercati e ristoranti sta per raggiungere la grande distribuzione.
A guidare Heura è Marc Coloma: un trentenne placido dalla cordialità timida che stride con la sua avventurosa biografia. È cresciuto intrufolandosi clandestinamente negli allevamenti di bestiame per documentarne le criticità, rendendosi l’antitesi dello startupper rinchiuso nella bolla di un garage a covare intuizioni. Attivista vegano, viene dalle proteste di piazza, finché ha capito che poteva sfruttare gli strumenti del mercato per stravolgerne le liturgie alimentari: «Siamo un proposito, uno scopo diventato un marchio» esordisce presentandosi in pantaloncini e maglietta, coerente con il suo understatement e il caldo violento del capoluogo catalano. Lo precedono i titoli, uno più altisonante degli altri: fa parte dei «50 Next», la prestigiosa lista delle personalità globali più autorevoli nel dare forma al futuro della gastronomia.
Heura procede clonando il passato. Il cibo di domani non meriterebbe uno sforzo d’immaginazione? Sarà un’imitazione di quello di ieri?
«Non è mancanza di fantasia, si tratta di una reinterpretazione. La gente ama le salsicce, le polpette, il pollo e l’hamburger, fanno parte della tradizione, si legano a una ritualità che si consuma attorno a un tavolo, è scolpita nella nostra antropologia. Non vogliamo metterla in discussione, piuttosto migliorarla. Come l’auto elettrica taglia le emissioni di quella a benzina».
Come pensate di convincere il pubblico a scegliervi, specie in Paesi quali l’Italia dove le tradizioni di cui parla sono solidissime e un’intera economia si regge su quest’eredità?
«Creare una coscienza serve fino a un certo punto. Possiamo ripetere allo sfinimento l’importanza di muoversi in bicicletta, ma se non ci sono piste ciclabili e mezzi in quantità ragionevole, nessuno li userà. Ormai in tantissimi concordano che l’allevamento di animali presenta problematiche, però se vai al supermercato e non trovi alternative, quella consapevolezza si ferma lì. Non mi reputo un misantropo, ma un ottimista: se ci sono gli strumenti, se esistono le possibilità di scelta, il cambiamento accade».
Filosofia a parte, la carne resta un prodotto naturale, il vostro arriva da un laboratorio.
«Pure il veleno è un prodotto naturale, ma se lo bevi muori. I primi pomodori provenienti dal Sudamerica erano tossici, oggi sono un elemento imprescindibile della nostra dieta. La lezione da trarre è che c’è cibo lavorato bene e cibo lavorato male. Persino l’acqua viene processata, se non lo fosse ci farebbe ammalare, lo stesso accade per il pane o la pasta. La carne non rappresenta un’eccezione».
In che misura?
«Garantisce proteine, minerali, grassi e vitamine, che però sono presenti nel regno delle piante in percentuali più salutari. Vari prodotti della carne sono pieni di conservanti e altre sostanze che non fanno bene alla salute: è davvero complicato ottimizzare un animale. Grazie alla tecnologia, si può raggiungere un equilibrio, avere alimenti gustosi da mangiare ogni giorno, perché qualsiasi nutrizionista li raccomanderebbe. Non minacciamo la carne, miglioriamo i valori nutrizionali dei suoi formati. Non miriamo ad affossare l’industria delle proteine, la spingiamo a riconvertirsi in un mondo dalla popolazione in rapida crescita e una domanda di calorie in continuo aumento».
Da più parti s’intravede una via d’uscita negli insetti.
«Tra i più usati ci sono i grilli, che possono percepire il dolore. Perché insistere con gli animali quando esistono vie accessorie con un più basso impatto sulle risorse del pianeta, un uso inferiore di terra e acqua, meno anidride carbonica? Gli insetti sono adoperati per creare concentrati di proteine, tanto vale ricavarle dai piselli o da altri legumi più efficienti».
La carne coltivata in laboratorio, in compenso, è del tutto identica a quella classica ed è priva di ogni forma di crudeltà. Attende le autorizzazioni per essere commercializzata su vasta scala. Potrebbe finire per marginalizzare o rendere obsolete le vostre proposte?
«Non vogliamo commettere l’errore di identificarci in maniera univoca, come ha fatto parte dell’industria finora. La nostra missione è scuotere le coscienze applicando l’innovazione agli alimenti. Oggi ci concentriamo su prodotti a base di piante, perché sono i più scalabili e danno i risultati migliori. C’è spazio per sperimentare, ci saranno opportunità da esplorare».
Heura nasce da una sua personale ribellione.
«Entrare di nascosto negli allevamenti mi ha cambiato la vita. Provavo nausea. Si avvertiva dolore, gli animali venivano trattati non come esseri viventi, ma come macchine».
I suoi, però, erano atti illegali.
«Totalmente illegali. Credo in una disobbedienza non violenta, nel non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Sono convinto che si possa essere parte della soluzione, che il progresso debba guidarci, la tecnologia possa aiutarci a raggiungerlo».