Sulla sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, opera di immenso successo appena ripubblicata, si è plasmato un pezzo
di identità nazionale. L’autore raccolse il prezioso materiale gastronomico nei suoi viaggi attraverso un Paese in formazione. E lo rese patrimonio collettivo.
Paolo Mantegazza (1831-1910) è stato uno dei più grandi anticipatori della contemporaneità. Fisiologo e neurologo, studioso di patologia, ha avuto il merito di sostenere gli studi di antropologia in Italia (ottenne a Firenze la prima cattedra italiana). Lui stesso ha praticato la disciplina, soprattutto dopo – fresco di laurea – essersi trasferito in Sudamerica e aver trovato moglie da quelle parti.
Fu nel continente americano – dove rimase quattro anni – che Mantegazza prese, dagli indigeni, l’abitudine di masticare foglie di coca. Un vizio che mantenne una volta rientrato in Italia: usava droghe regolarmente, e aveva in mente di diffonderne il consumo in Europa per scopi terapeutici, ricreativi e pure commerciali. Ritornato, nel 1858 pubblicò il saggio Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale, nel 1859 un articolo intitolato Sull’introduzione in Europa della coca, nuovo alimento nervoso, dove faceva grande pubblicità al consumo di stupefacente.
Lo smercio di coca, per fortuna, non si trasformò in una professione, tuttavia Mantegazza riuscì a diventare enormemente famoso, soprattutto grazie al suo lavoro di igienista. Benché spesso pieni di idee balzane e teorie discutibili, i suoi libri «educativi», a partire da Elementi di igiene del 1871, ebbero un gigantesco successo. Nel corso degli anni, pubblicò anche tre libri (bestseller dell’epoca) sull’amore e i rapporti sessuali.
Da un certo punto di vista, Mantegazza si potrebbe definire una sorta di radicale. Massone, libertario sul piano sessuale, favorevole alle droghe, positivista convinto, si batté senza sosta perché le teorie di Charles Darwin penetrassero anche in Italia. Solo che il suo darwinismo granitico – come spesso accaduto – sfociò in un’inquietante passione per l’eugenetica, che emerse con prepotenza nel romanzo L’anno 3000 (1897), considerato una delle prime opere di fantascienza italica. Il nostro patologo-antropologo, divulgatore più che scienziato, era favorevole al controllo delle nascite, immaginava la fecondazione artificiale, insomma era – almeno sul piano di quelli che oggi chiameremmo «diritti» – un progressista d’acciaio, quasi un transumanista.
Sapete qual è la cosa divertente? È che questo stravagante signore – non notissimo ai più ma molto celebrato da tanti libertari in giro per il mondo – è stato uno dei principali artefici del successo micidiale di un libro che ha plasmato tantissime famiglie italiane. Le famiglie tradizionali, quelle oggi tanto combattute ma che erano ben piantate nella testa di Pellegrino Artusi (1820-1911) quando scrisse La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, il cui sottotitolo è, non a caso, «manuale pratico per le famiglie», uscito in prima edizione nel 1891 e ripubblicato quest’anno in una nuova e bella edizione da La Nave di Teseo, in occasione dei 200 anni dalla nascita dell’autore.
Per capire che c’entri il Mantegazza in tutto questo bisogna prima dare uno sguardo alla biografia dell’Artusi. Pellegrino era nato a Forlimpopoli, in Romagna, allora dominio dello Stato pontificio. Suo nonno era muratore, suo padre divenne mercante e, nonostante il figliolo non gradisse, presto lo strappò agli studi e se lo trascinò in giro per l’Italia al fine di insegnargli l’arte del libero scambio. Sembrava che il destino di Pellegrino fosse segnato: ingabbiato in un’esistenza piccolo borghese che non gli dava soddisfazione, non corrispondeva alle sue aspirazioni e, come si scoprirà poi, non faceva giustizia ai suoi talenti. Poi tutto cambiò nel corso di una notte terribile.
Nel 1851 il brigante Stefano Pelloni, detto Il Passatore, entrò a Forlimpopoli con i suoi scagnozzi in cerca di denaro. Assaltò anche la casa degli Artusi: il vecchio padre svenne quasi subito, Pellegrino si difese come poté, la madre fu costretta a consegnare l’incasso della settimana. Andò molto peggio a Gertrude, sorella di Pellegrino, che fu stuprata. Altro che il pascoliano «Passator cortese»: il brigante aveva sconvolto profondamente la vita tranquilla dei commercianti Artusi, i quali decisero presto di cambiare aria e di trasferirsi a Firenze.
Per Pellegrino fu la svolta. Nella città toscana, che presto sarebbe divenuta capitale del Regno d’Italia, poteva respirare l’aria aristocratica che da sempre lo attirava. Poteva anche dare sfogo alle sue passioni politiche: era un fervente nazionalista, sognava appunto l’Italia unita, e coltivava un robusto (anche se mai troppo scomposto) anticlericalismo. L’avversione per i religiosi – dovuta anche alla permanenza nello Stato della Chiesa – fu alimentata pure dalla faccenda dello stupro con saccheggio a opera di Pelloni. Pellegrino sospettava che il brigante fosse appoggiato, in segreto, dai preti.
A Firenze, l’Artusi – ormai passato al timone dell’attività di famiglia – fece fortuna come mercante. Era nel cuore pulsante della Penisola, poteva coltivare la sua passione per gli abiti eleganti, viveva in un quartiere signorile accanto a personalità di spessore. Morti i genitori, diede a marito le sorelle aumentando considerevolmente la loro dote. A quel punto, poté dedicarsi completamente a se stesso e vivere come aveva sempre sognato.
Nel 1870 mollò il lavoro per tirare avanti di rendita. Leggeva selvaggiamente e collezionava libri. Frequentava le lezioni pubbliche all’università. E fu proprio lì che si imbatté in Mantegazza. Ne ascoltava le conferenze, e con la sua età ormai non più verdissima e l’aspetto distinto, colpì il professore. Mantegazza teneva un diario in cui, quasi maniacalmente, annotava tutti gli eventi della giornata: i pasti, le visite al bagno, i frequenti rapporti sessuali con la giovane moglie. Vi incise anche l’incontro con l’Artusi, di cui divenne abbastanza facilmente amico.
I due avevano tutte le caratteristiche per piacersi. Anche Pellegrino, a modo suo, era un libertario. Non si sposò mai, nella sua autobiografia – tra un’invenzione e l’altra – confessò di avere uno strabordante appetito sessuale. Soprattutto, sia Mantegazza che Artusi erano vulcanici, curiosi, assetati di cultura. Pellegrino voleva misurarsi con le lettere. Pur autodidatta, aveva sviluppato una prosa bella grassa, e accumulato un malloppo di conoscenze. Gli esordi in libreria, però, non furono dei più felici. Vita di Ugo Foscolo (1878) e Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti (1881) passarono di fatto inosservati.
Per sfondare avrebbe dovuto aspettare i 70 anni, quando pubblicò a sue spese quello che sarebbe poi diventato L’Artusi, ovvero La scienza in cucina. Era un curioso miscuglio di ricette (790 in tutto alla tredicesima edizione del 1909) e ricordi personali, aneddoti e consigli per cucinieri. Nessuno voleva stamparlo, e il nostro ex commerciante fece da solo. Ed ecco la mano del Mantegazza: Paolo saccheggiò varie ricette dell’Artusi e parlò a lungo e benissimo del suo libro in alcuni dei suoi almanacchi popolari d’igiene. Era fatta.
La voce cominciò a diffondersi, le vendite presero a salire. Con Pellegrino in vita, le edizioni furono 11, tutte da lui curate, con l’aiuto di Marietta e Francesco, suoi aiutanti in casa, assistenti in cucina e cavie a tavola (sarebbero divenuti, una volta defunto, suoi eredi). Incredibile: un igienista libertario e uno scapolone impenitente avevano fatto esplodere un’opera che sarebbe entrata nelle case di tutte le famiglie italiane, modificandone le abitudini.
Pellegrino, raffinato ed estroso com’era, potrebbe ricordare uno chef come Bruno Barbieri, ma la sua idea di cucina è lontanissima da quella fighetta e stellata di oggi. È una cucina borghese, tessuta per tenere insieme tutti gli italiani, di ogni ceto. Per l’Artusi il cibo è godimento, non esibizione. È piacere, non competizione. Egli, nelle varie introduzioni al suo capolavoro, si raccomanda di non eccedere e non ingozzarsi, di non bere troppo, di fare movimento. «Non vorrei che, per essermi occupato di culinaria» scriveva «mi gabellaste per un ghiottone o per un gran pappatore; protesto, se mai, contro questa taccia poco onorevole, perché non sono né l’una né l’altra cosa».
Era un bel borghesotto, questo sì, e anche un uomo alla buona. Ha in effetti unito l’Italia col buon cibo, e tenuto assieme, attorno alla tavola, tante famiglie. Anche se lui non ne ebbe mai una sua.