Assaliti ogni giorno da notizie, consigli, avvertimenti, allarmi e «scoperte» sull’alimentazione, ci perdiamo in un labirinto di nonsense. Ci offre gli strumenti per uscirne il saggio scritto da un esperto. Che demolisce un modo fasullo di fare scienza, e divulgazione.
In un ipotetico ristorante che prima di servire i clienti seguisse, in diretta, tutte le indicazioni, consigli, annunci, divieti e avvertenze in ambito alimentare, assisteremmo a una sarabanda indiavolata intorno ai tavoli. La tartare di manzo appena ordinata sarebbe sostituita da un secondo all’altro da un piatto di poke con curcuma e bacche di goji, il bicchiere di vino che stiamo per sorseggiare sparirebbe velocemente nelle mani di un cameriere lesto a offrirci, in cambio, birra biologica analcolica, il sale bianco lascerebbe posto a quello rosa dell’Himalaya, la Saint Honoré con panna ci sarebbe sottratta a favore di una mattonella di cacao fondente, e sul caffé assisteremmo ad accesi dibattiti in cucina («non va servito perché ho letto che fa venire il cancro», «sì però io ho sentito che protegge dall’Alzheimer»).
Suona folle? Lo è almeno quanto la valanga quotidiana di notizie e informazioni, spesso discordanti se non del tutto contradditorie, su cibi, condimenti e bevande che affolla quotidiani, riviste, televisioni, siti internet. Confessiamo di averlo fatto anche noi: con suadente assertività abbiamo scritto che il té verde allunga la vita, che la bistecca di maiale alla brace aumenta il rischio di tumore, che lo zucchero è satana. A nostra discolpa, citavamo fior di studi scientifici.
Quindi, dov’è l’errore? Ce lo spiega, con divertito fervore divulgativo (ma con argomentazioni solide, serie e complesse), il saggio Fa bene o fa male? Manuale di autodifesa alimentare di Dario Bressanini, docente di Chimica all’Università dell’Insubria (Como), che in 320 pagine smonta luoghi comuni, false certezze, stereotipi e bufale assortite. Non aspettatevi un elenco di cibi promossi o bocciati – benché nei vari capitoli si faccia un bel po’ di chiarezza su alcuni alimenti – bensì una guida per capire che cosa rivela davvero uno studio scientifico, come leggere dati e affermazioni, a quali conclusioni giungere per non perdersi nel labirinto del «si dice, ho letto, sembra che». Tra gli annunci shock che di recente si sono meritati titoloni di giornali ricordiamo tutti quello dello Iarc (International agency for research on cancer): la carne rossa è cancerogena. Mangiarla, a quanto pare, ci farà finire in un reparto di oncologia. Attenzione, avverte Bressanini, la definizione di «cancerogeno» è sottile. Non vuol dire che se mangio braciole morirò, ma che aumento la mia eventualità di sviluppare una particolare forma di tumore, quella al colon-retto.
Sì ma, anche qui, che significa «aumento»? La carne rossa, per amor di precisione, è classificata nella classe 2A, ossia come «probabile cancerogena», così come i fumi della frittura, le bevande bollenti, o la professione di parrucchiere. La lista 2A (96 agenti diversi) comprende prodotti o sostanze rivelatesi cancerogene in animali di laboratorio, ma le prove che lo siano anche su di noi sono limitate. Non solo: quando l’Oms ci dice che il rischio di cancro al colon legato alle carni trasformate (50 grammi ogni giorno) è del 18 per cento, è bene sapere che parla di rischio «relativo», da rapportare sempre a quello assoluto altrimenti non significa niente: e il rischio «assoluto» di partenza di sviluppare un tumore nell’arco della vita, per tutti, è intorno al 5 per cento. Consumando bistecche al sangue quell’eventualità sale un po’, ma evitarle del tutto non è garanzia di per sé di salute. Se districarci fra studi autorevoli è difficile, le pubblicazioni scientifiche «spazzatura», che esaltano virtù assai presunte di un qualsiasi alimento o sostanza, sono un’autentica trappola in cui cadere è un attimo.
«Se una volta la responsabilità ricadeva quasi sempre su un giornalismo approssimativo e sulla tentazione di fare un titolo a effetto, oggi questo stile comunicativo spesso arriva dagli uffici stampa di ospedali, enti di ricerca o università, che enfatizzano studi in vitro o topi, ipotizzando indimostrati legami di causa-effetto» precisa Bressanini. Appartiene a questo genere di news da prendere con le pinze, per fare un esempio fra tanti (ma tanti davvero) la notizia che il cioccolato fondente fa dimagrire – cui Bressanini dedica un capitolo illuminante. Qualche anno fa uno studio su Nutrition indagava sul legame fra il cioccolato e il peso di adolescenti europei. Risultato: «Un maggiore consumo è associato a una minore quantità di grasso totale e addominale». Semplice associazione, quindi. Non un rapporto causale. Ma l’idea che il cibo degli dèi facesse pure perdere peso piacque troppo per non avere un immeritato successo.
Sull’Internation Archive of medicine rincarava la dose un altro studio non osservazionale, ma sul campo: i ricercatori avevano somministrato cioccolato nero a un gruppo di volontari, stabilendo che 42 grammi al giorno facevano perdere il 10 per cento del peso. Di nuovo, grande entusiamo mediatico. Finchè lo stesso autore dello studio ammise che l’indagine era provocatoria e costruita a tavolino (e solo su 15 soggetti), per dimostrare quanto fosse facile generare ricerca di bassissimo livello. «Era uno esempio tipico nel campo della ricerca sulle diete. Vale a dire, scienza di infima qualità» disse. Insomma, siamo circondati da scienza bidonara. «Anche fra i ricercatori» riflette Bressanini « c’è ormai una pressione molto forte, il famoso “public or perish”: se non pubblichi risultati che poi finiscono sui giornali, non solo scientifici, non ricevi più finanziamenti, c’è frenesia nel saltare alle conclusioni. Cosa che per la scienza è deleteria, perché questa ha i suoi tempi, non può andare veloce né offrire certezze inconfutabili».
Altro (cattivo) esempio piuttosto gustoso è l’arcinoto sale rosa dell’Himalaya. Capace, così pare, di tutto un po’: ridurre la ritenzione idrica e la pressione, favorire l’equilibrio del pH cellulare e l’assorbimento degli elementi nutritivi, rafforzare le ossa, migliorare la salute dei reni, aiutare il sonno, persino incoraggiare il desiderio sessuale. Lo avrete già capito: bufale. A partire dall’origine, visto che non viene dall’Himalaya bensì dalle montagne del Salt Range, in Pakistan, ricche di depositi salini. Cosa avrebbe di speciale? Impurità di ossido di ferro, che gli danno quel colore. Secondo i suoi fans, il sale rosa, rispetto al «collega» bianco, sarebbe un’imprescindibile fonte di ferro. Ma, scrive Bressanini facendo due calcoli, l’assunzione di ferro dal sale rosa è trascurabile: «Otterremmo qualcosa di più succhiando ogni giorno un chiodo arrugginito». La stessa conclusione, benefici campati in aria, vale per la clorofilla liquida – la cui moda negli anni ha conosciuto corsi e ricorsi -da aggiungere all’acqua per migliorare la pelle, guarire dall’acne, rinfoltire i capelli, depurare l’organismo (una bottiglietta con dosadore va dai 40 ai 400 euro). E su questa esigenza collettiva e un po’ nevrotica di «depurarsi» ci sarebbe da fare un altro discorso, se non fosse che lo spazio è quello che è.
Aggiungiamo gli apparecchietti venduti per produrre acqua ionizzata alcalina, ovviamente perché tale acqua aiuta le difese, combatte l’osteoporosi, ripulisce l’intestino ed è pure anti aging. C’è qualcosa di vero? Ma figurarsi. Al di là delle mitomanie dei singoli alimenti o bevande, conviene ridefinire un po’, avendo l’esperto a portata di mano, anche una certa enfasi salvifica legata al cibo bio. «È più che altro una questione di percezione» sostiene Bressanini. «Il cibo biologico viene percepito più sano, ma questo tipo di alimentazione in origine derivava da una particolare agricoltura che, in base alla legislazione europea, si era data come obiettivo non tanto la salute quanto ridurre l’impatto sull’ambiente di certe colture. Ma presentata così, non decollava nell’opinione pubblica. Il boom è avvenuto anni dopo, grazie al potere del marketing: le mele bio erano “sane”, quelle convenzionali “tossiche”». Lo sono? Dati alla mano, grandi differenze non esistono. Nell’agricoltura biologica vengono usati come pesticidi alcuni agrofarmaci, di origine più o meno naturale. Ma il fatto che un pesticida sia «naturale» non significa che abbia minore impatto sull’ambiente o sull’uomo.
Parlando di «percezione», non sono «sexy» nemmeno i legumi, per dire. «I fagioli borlotti non saranno esotici come le bacche di goji, ma hanno benefici questi sì dimostrati, e andrebbero consumati in generose quantità» ricorda Bressanini. In questo vorticoso labirinto di informazioni dove ogni giorno c’è un allarme terrorizzante o una scoperta meravigliosa, dove la longevità è racchiusa in un barattolo di miele di manuka e la strada per l’inferno lastricata di salumi (come nelle vignette di Jacovitti), noi consumatori come ci orientiamo? Una cosa di sicuro possiamo farla: imparare a essere molto più scettici. Non fidarsi subito, sull’onda dell’emotività. Se ci imbattiano in una notizia che ci pare miracolosa o, al contrario, terrificante, calma: verificare le fonti. Se non sono riportate, girare al largo. Chiedere le prove. Interpretare i dati. Consultare i siti web giusti. Capire come è fatto davvero uno studio.
Sembra impegnativo? Un po’ sì. E tante volte resteremo comunque confusi, spaesati e insicuri. Ma è l’unico modo. L’autore del libro che ci offre questi strumenti conoscitivi ammette che pure lui ogni tanto, anzi spesso, si smarrisce nella giungla informativa. «Certo, so cosa dovrei fare» scrive nell’epilogo. «Un bel respiro, leggermi per bene l’articolo, andare a vedere chi l’ha citato, verificare se sull’argomento sono state pubblicate meta-analisi o rassegne sistematiche. E sicuramente lo farò. Ma sappiate che vi capisco».
