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Attenzione alla pedofobia

Attenzione alla pedofobia

Il nuovo telefilm Netflix, Il club delle baby-sitter, veicola molte idee care al pensiero unico politicamente corretto. Una delle protagoniste ha infatti due papà e nel quarto episodio compare anche un bambino trans di 9 anni.


I primi di luglio, Netflix ha presentato in anteprima una nuova serie Tv ispirata ai popolarissimi romanzi di Anne Martin, Il club delle baby-sitter, che narra le vicende di un gruppo di adolescenti che fanno le babysitter, appunto, in una città immaginaria del Connecticut.

Il successo dei libri e della serie tv è assicurato anche dal fatto essi veicolano molte delle idee care al pensiero unico politicamente corretto: per esempio, si celebra l’occultismo presentando come mamme meravigliose alcune streghe dichiarate e si propaganda l’ideologia Lgbt, tesa a normalizzare ogni tendenza, impulso e rapporto erotico.

C’è una delle babysitter felicemente figlia di un papà gay che ha lasciato la moglie e si è sposato con un uomo (i ragazzini traumatizzati dal divorzio e ancor più dal dover vivere con «due papà» o «due mamme», che esistono nella realtà, non hanno alcuna visibilità nelle fiction à la page…); c’è un ragazzino di 11 o 12 anni che si è preso una cotta per un compagno e la cosa è presentata come del tutto naturale, ovviamente; né poteva mancare un’insegnante lesbica con la sua compagna.

Infine, ma non ultimo, nell’episodio 4, una delle babysitter si occupa di Bailey, interpretata da Kai Shappley, nato Joseph, un bambino trans di 9 anni.

La storia a un certo punto narra del ricovero in ospedale di Bailey e della lezione impartita dalla babysitter ai dottori su come debbano trattarlo: «Bailey non è un maschio. E trattandolo come tale, lei [dottore] ignora completamente chi è. La sta facendo sentire insignificante e la umilia. E questo non la aiuterà a guarire, né a sentirsi al sicuro, né a stare calma. Quindi, da qui in avanti, per favore, la riconosca per quello che è». Il dottore, ovviamente, si scusa e si adegua.

Le parole della babysitter mostrano chiaramente come l’ideologia sia totalmente scollata dalla realtà (quel bambino è un maschio, ha il cromosoma Y in ogni cellula del suo corpo. E ce l’avrà per sempre, anche se sembra femmina). Tutti i professionisti della salute e gli educatori che hanno a che fare con i bambini sanno bene che per loro il confine tra immaginazione e realtà è naturalmente poco netto. Gli adulti e i professionisti responsabili – e che hanno il coraggio di affrontare le inevitabili accuse di transfobia e le eventuali conseguenze legali – lo comprendono e danno al bambino che presenta confusione di genere il tempo di crescere, facendolo sentire amato incondizionatamente, qualsiasi sia la percezione che egli ha di sé; ma al contempo, dolcemente, evitano di «affermare» immediatamente il genere «percepito» dal bambino. Perché la «transizione» da un sesso all’altro è dolorosa, costosa e comporta effetti collaterali estremamente rischiosi. Ma soprattutto perché è oggettivamente impossibile: un maschio potrà sembrare femmina (o viceversa), ma non lo diventerà mai, né geneticamente, né fisiologicamente, né dal punto di vista neurologico.

Per esempio, i medici più aggiornati praticano la «medicina di genere», in quanto si delineano sempre più chiaramente le differenze nelle patologie dei maschi e delle femmine e si dimostrano sempre più efficaci approcci terapeutici diversi per gli uni e le altre. Il giorno che un trans dovesse presentare problemi cardiaci, preferirà essere curato per quel che sembra o per quel che è, sapendo che la cardiopatia non guarda all’aspetto fisico, ma si presenta e si cura in modo diverso a seconda del sesso biologico del malato?

Il bambino che interpreta Bailey è stato per diverso tempo alla ribalta delle cronache perché la mamma – che si definisce una cristiana conservatrice – nel 2016 ha fatto causa alla scuola materna che non voleva permettere al bambino, che si percepiva femmina dall’età di due anni, di andare al bagno delle compagne: gli avevano proposto una terza toilette, apposita per lui, ma no, la cosa lo traumatizzava. La donna, ai tempi della querelle, diceva che si era decisa definitivamente ad assecondare il figlio (a 5 anni) quando questi cominciò a manifestare il desidero che «Joseph morisse». E, infatti, i promotori del transgenderismo adducono come motivo principale per cui il corpo di queste persone debba adeguarsi alla mente (e non il contrario!) per prevenirne il suicidio.

La realtà, anche in questo ambito, è ben diversa: il suicidio tra i minori trans è estremamente raro. Certamente, qualsiasi suicidio (anche il suicidio assistito!) è una tragedia che bisogna prevenire in ogni modo, e tutte le minacce di suicidio devono essere prese sul serio. Tuttavia, non ci sono prove scientifiche che a lungo termine i bloccanti della pubertà, gli ormoni del sesso opposto, o gli interventi chirurgici di «transizione» prevengano il suicidio. Al contrario, ci sono fior di ricerche che mostrano che coloro che hanno «cambiato sesso» – anche in Paesi come la Svezia o l’Olanda, società molto liberal, certamente non «transfobiche» – si uccidono con una frequenza molto maggiore della popolazione in genere.

Lo psichiatra svedese Sven Roman, specializzato in bambini e adolescenti, che non è certo imputabile di omo-transfobia, ha esplicitamente affermato che non c’è alcun supporto scientifico per sostenere che i «cambiamenti di sesso» riducano il rischio di suicidio. Dello stesso parere Michael Bailey della Northwestern University e Blanc Blanchard dell’Università di Toronto.

Tra l’altro, gli psichiatri sanno bene che in nessuna condizione medica o psicologica il paziente che minaccia suicidio – a maggior ragione se si tratta di un minorenne – può esser lui a decidere il trattamento e le cure. Consentire che lo facciano le persone con disforia di genere (che pretendono di «cambiare sesso») è grave negligenza medica che può nuocere – e molto – ai pazienti.

Le persone con disforia di genere, infatti, di solito soffrono anche di depressione, anoressia, autismo e altre condizioni psicologiche che predispongono ad istinti suicidi. L’autolesionismo, quindi non è detto sia riconducibile alla disforia di genere che potrebbe essere solo uno dei risvolti secondari di un malessere più profondo. Ecco perché intervenire con il cambiamento del sesso non serve a risolvere il problema psicologico di base. Anzi: Michael Biggs dell’Università di Oxford ha osservato che dopo un anno di bloccanti della pubertà, i ragazzi hanno manifestato un maggiore autolesionismo e le ragazze hanno avuto maggiori problemi comportamentali ed emotivi ed hanno espresso maggiore insoddisfazione nei confronti del loro corpo: i bloccanti della pubertà hanno esacerbato la disforia di genere.

Insomma, la propaganda martellante che i media e il mondo dello spettacolo (e Netflix) fanno al transgenderismo, non serve a tutelare i diritti e la salute dei minori, ma serve a incentivare insicurezza e confusione che alla fine portano all’infelicità, se non alla disperazione. Serve a fare propaganda a una moda che sta prendendo piede sulla pelle di bambini e adolescenti, impinguando il portafoglio delle cliniche specializzate e delle case farmaceutiche che producono ormoni sessuali e bloccanti della pubertà. Denunciare questo non è «transfobia», ma vuol dire avere davvero a cuore la salute psico-fisica di persone vulnerabili, innanzi tutto di ragazzini. Fare una tale propaganda ideologica, invece, è decisamente «pedofobia».

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