Shane MacGowan (a destra) con i Pogues
Ansa
Musica

Una pinta con Shane MacGowan, icona dei Pogues

Esce l'autobiografia di una leggenda della musica contemporanea, che con i Pogues ha realizzato la perfetta fusione tra punk e folk d'Irlanda. In esclusiva un estratto del libro

Shane Macgowan è indubbiamente un'icona della musica irlandese e al tempo stesso della scena alternativa. La sua traiettoria artistica con i Pogues all'insegna della contaminazione tra punk e folk èdiventata un genere musicale. Unico come lo band che lo eseguiva. In questi giorni arriva in libreria edita da Tsunami l'autobiografia di MacGowan, tra aneddoti da pub e molto altro ancora...

Una pinta con Shane MacGowan è esattamente ciò che il titolo promette: una lunghissima chiacchierata con lui come se vi stesse seduto accanto al bancone del pub, mentre tra una birra e l’altra intrattiene gli avventori con i racconti di tutta una vita. L’infanzia trascorsa in una fattoria irlandese lontano dai genitori, il suo primo incontro con la Guinness alla tenera età di cinque anni, il trasferimento a Londra e la nascita della prima scena punk, gli anni nei Pogues e tante altre avventure, direttamente dalla sua viva voce, raccolta dalla moglie e compagna di sempre Victoria Mary Clarke.

Qui sotto un estratto dal libro Una pinta con Shane MacGowan

"Quando sono nati i Pogues non c’era della musica dal vivo decente. Quello che volevo fare era andare oltre il rock‘n’roll, tornare a prima del rock‘n’roll e fare musica irlandese, ma per un pubblico pop, perché penso che la musica irlandese sia molto simile al rock‘n’roll, ed è uno dei generi che lo hanno influenzato; è uno dei generi di cui è composto il rock‘n’roll.

Molte canzoni irlandesi sono pezzi rock‘n’roll; ‘The Rocky Road to Dublin’, per esempio, è una canzone rock‘n’roll. Quando abbiamo iniziato, la gente faceva tutta questa merda di world music, che io trovavo davvero fastidiosa e noiosa, e ho pensato: “Ce l’abbiamo in casa, la cultura irlandese. La musica irlandese è viva e vegeta, qui in Inghilterra e in tutto il mondo”. In quel momento non sapevo fino a che punto fosse diffusa nel mondo, ma ovunque ci siano gli irlandesi, c’è musica irlandese, e vogliono ascoltarla. Era talmente ovvio.

Non è stata proprio una mia idea, quella di fondare la band. È venuta ad altre persone, Spider e Jem, e un ragazzo di nome Ollie, che è stato il primo batterista. Sono stato trascinato dentro perché ero coinvolto con i Nips, che se­condo loro erano una buona band… Io non ho mai pensato che lo fossimo, ma eravamo un gruppo molto popolare dal vivo e, se avessimo avuto le giuste oc­casioni, avremmo potuto avere un successo enorme. Eravamo una buona band pop e avevamo un buon seguito, dei fan fedeli. Io – o meglio, noi – l’abbiamo ricreato con i Pogues.

Non c’era un gap generazionale con i Pogues, non suonavamo solo per gli ado­lescenti… suonavamo per tutti. Eravamo una band da bar e suonavamo musica country e rock‘n’roll, cose come ‘Green, Green Grass of Home’ e ‘Don’t It Make My Brown Eyes Blue’, oltre a roba irlandese. Facevamo musica da showband,metten­dole un bel po’ di pepe in culo, oltre alla musica tradizionale irlandese; in pratica prendevamo sul serio cose che prima erano state trascurate dalla musica pop. I ve­stiti che indossavamo, i completi neri con le camicie bianche, erano l’uniforme di Brendan Behan, ed è per questo che li avevamo scelti, non per sembrare eleganti, ma per essere senza tempo, se capisci cosa intendo. Potevamo essere un gruppo degli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta… avevamo semplicemente l’aspetto dei classici paddy.

Ero davvero preso da Brendan Behan. Piaceva a tutti, ma a me in particolare. Credo che mi identificassi con lui perché avevo un grosso problema con l’alcol e mi piaceva il suo modo di scrivere, e perché era irlandese. Mi piacevano tutti gli scrittori irlandesi, ma lui era quello più di tendenza, quello più popolare. Era quello di successo, che aveva avuto dei successi. Era un po’ come Irvine Welsh. Era uno scrittore che aveva vissuto sul serio, aveva fatto parte dell’IRA, era stato in prigione. Mi piaceva il fatto che avesse davvero vissuto quelle esperienze, che non se le fosse inventate. È un aspetto che mi attrae in chiunque.

Volevo fare una musica pura, che potesse essere di qualsiasi epoca, volevo ren­dere il tempo irrilevante, rendere irrilevanti generazioni e decenni. Non volevo in­sultare l’intelligenza delle persone e non volevo fingere di essere un intellettuale. Volevo che la musica non parlasse di angoscia e di quanto sia terribile starsene nella propria camera da letto a farsi di eroina, o cagate del genere. Non volevo che parlasse di quanto sia brutto bere, volevo celebrare l’uso di droghe, il bere e la vita. Volevo celebrare il lato squallido della vita che piace a me. Mi piacciono i pub, la droga e il sesso. Detestavo la tendenza all’apatia degli anni Ottanta, e i musicisti che si com­portavano bene. Volevo bloccare le persone sul posto e riportarle indietro, a prima dei Beatles, prima di Elvis, e iniziare da lì.

Anche i Sex Pistols e i Ramones avevano riportato la musica a un livello sem­plice, ma non avevano riportato i testi alla banalità. Nemmeno io volevo riportare i testi alla banalità, il che è sempre un pericolo. La musica irlandese non ha testi banali, quindi non volevo che le mie canzoni avessero testi di quel tipo, e così è stato.

Non ho mai avuto intenzione di scrivere così tante canzoni come poi ho fatto. Non volevo essere conosciuto come un cantautore, volevo che il gruppo fosse cono­sciuto come una band che suona musica irlandese mista a country, pop, rock‘n’roll e musica per ballare, fare festa, e tutto il resto, ma non per insultare l’intelligenza delle persone. E penso di esserci riuscito per un po’, semplicemente mettendo da parte le stronzate. Abbiamo ridotto la batteria a un rullante e i piatti, e avevamo solo uno strumento elettrico: il basso.

Eravamo pesantemente influenzati anche dai Dubliners, che pensavo fossero la band più rappresentativa della musica pop irlandese. Quindi Behan non è stato un’influenza importante quanto i Dubliners, perché per me la musica era più im­portante, lo è sempre stata. Il fatto che scrivessi dei testi intelligenti, o almeno che la gente pensasse che lo fossero, per me era irrilevante. Non volevo diventare quello che tutti consideravano un genio, e quando hanno iniziato a farlo, ho capito che sareb­be stato pericoloso. Perché quando una sola persona diventa oggetto di attenzioni, l’armonia del gruppo inizia a vacillare. I ragazzi della band hanno creduto a ciò che la stampa scriveva su di me, anche se io stesso non ci credevo. E poi hanno deciso che dopotutto ero solo uno stupido ubriacone, perché l’avevano letto sui giornali".

Tsunami

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Gianni Poglio