La truffa del secolo, nera come il carbone – La recensione
Il ritorno di Olivier Marchal nella tradizione del “noir” francese. Una storica frode miliardaria ai danni dello Stato tra cadaveri e paradisi fiscali
La truffa del secolo (nelle sale dal 28 giugno. Durata 103’) non è un medio film americano di genere come farebbe supporre il titolo italiano, ma un ottimo film franco-belga (che in originale fa Carbone). Escogitato sull’impronta del noir più secco e notturno di matrice francese conficcato nel milieu malavitoso, animato, si può dire, dalle sue figure classiche e maledette, sulla tradizione di gente come Henri-Georges Cluzot, Jules Dassin, Henri Verneuil, José Giovanni, Jean-Pierre Melville, il Maurice Pialat del magnifico Police (1985). Magari, qua, non saremo a quei livelli, non avremo i Jean Gabin e i Jean-Paul Belmondo del tempo d’oro ma gli attori si fanno, come si dice, rispettare e i tempi narrativi restano ai livelli del buon croccante passato.
Un imbroglio colossale chiamato “Carbone Connexion”
Del resto, da un regista ex poliziotto che ti puoi aspettare? Per esempio un polar perfetto e metallico come 36 Quai des Orfèvres che nel 2004 lo fece decollare più o meno definitivamente, col suo perpetuo giaccone di cuoio nero, l’aria navigata e tosta, l’espressione ruvida almeno quanto il cinema che somministra. Insomma Olivier Marchal. Che alla soglia dei sessant’anni e un carnet di film girati abbastanza cospicuo, si ripresenta oggi romanzando – sulla scorta d’un libro di Aline Robert – quella che fra l’ottobre del 2008 e il giugno 2009 è passata alla storia come la Carbone Connexion, vale a dire la frode miliardaria ai danni dell’Iva francese e dell’economia europea sulle quote di carbone e la vendita di emissioni di carbonio.
Moltiplicazioni di capitali, lusso, riciclaggio ed efferatezze
Un marchingegno complicato fatto di titoli, moltiplicazioni di capitali, macchine di lusso, riciclaggio, coca, paradisi fiscali, trafficanti arabi, israeliani, cinesi e banditismi d’ogni sorta che un imprenditore in crisi chiamato Antoine Roca (sul quale recita con asciutta perizia Benoît Magimel) mette in moto assieme alla coppia di fratelli Simon (Gringe) e Eric (Idir Chender) con l’aiuto della madre di loro Dolly (Dani) per salvarsi dal fallimento e, in parte, riscattarsi agli occhi del potente implacabile suocero Aron Goldstein che ha il volto d’un sontuoso Gérard Depardieu e lo considera un incapace.
Prima la “Porsche”, poi le pallottole e il sangue sull’asfalto
Che la storia finisca male, anzi malissimo, lo si sa fin da subito perché nella prima scena Antoine dura poco, quanto la Porsche 911 cabrio che s’è appena comprato e finisce sull’asfalto traforato di pallottole e zuppo di sangue. La vicenda che segue è il flashback sugli eventi criminosi, sul drago del potere (qua economico) che divora se stesso e si rigenera come l’Uroboro, sulla valanga che trascina con sé corruzione e vizio, sulla Police Nationale che scoperchia l’intrico, sulla ferocia che dilaga tra minacce rozze e spietate esecuzioni.
Uno strapiombo che il film scruta ed esplora sul filo della tensione e del pericolo incombente, con le intensità riarse e impetuose di un gangster movie ansiogeno, notturno e crepitante fotografato benissimo da Antony Diaz, perfino con una scelta musicale che scandisce sulla cadenza claustrofobica di Suicide social del rapper Orelsan i fermenti più severi del racconto, confermati dalle sonorità pesanti (e pensanti) di una colonna firmata da Erwann Kermovant appena stemperata dall’evanescenza incursiva della Womanizer di Britney Spears.