Facebook, quando l’attivista non è un buon amico
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Facebook, quando l’attivista non è un buon amico

Profili soppressi, pagine cancellate: il social network di Mark Zuckerberg vuole zittire gli utenti "scomodi"? O si tratta solo di coincidenze?

Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi che Facebook – con il suo popolo da 900 e rotti milioni di utenti - è il terzo Paese del mondo, dopo Cina e India. Una nazione virtuale (ma composta da persone reali) nella quale non esistono leggi se non quelle, si fa per dire, della privacy.

Eppure c’è chi pensa che dietro al più grande social network del mondo ci sia un governo occulto che tutto guarda e tutto controlla. Una grande amministrazione centrale fatta da ingegneri e programmatori severissimi, pronti a punire, se serve, chiunque vìoli certe regole non scritte.

In un articolo apparso su di Foreign Polucy dal titolo piuttosto eloquente (Il governo del Facebookistan), Rebecca MacKinnon prova a fare luce sulla linea di condotta adottata dai social network, e in particolare da quello di Mark Zuckerberg, nei confronti dell'attivismo online. I numerosi casi di account sospesi a Taiwan e Hong Kong proprio nei giorni antecedenti alle commemorazioni del massacro di Tienanmen, lo scorso 4 giugno, inducono infatti a pensare che il legame fra libertà di pensiero e social network sia sempre di più appeso a un filo sottile.

Il problema non è nuovo, spiega la MacKinnon. Nel 2010 la Open Net Initiative, un'organizzazione che si dedica allo studio a livello mondiale della censura su Internet, ha pubblicato un rapporto nel quale documenta i casi di account sospesi e pagine di attivisti cancellate dai principali siti social. Come quella pubblicata su Facebook nel novembre 2010 a sostegno della grande manifestazione contro gli interventi della polizia in Egitto (pochi mesi prima delle manifestazioni piazza Tahrir che portarono alla caduta del regime di Mubarak), cancellata dallo staff di Menlo Park un giorno prima della protesta. O come il link indirizzato verso un'organizzazione filopalestinese (Freedom Oneworld) postato dal cantautore britannico Billy Bragg, anche questo rimosso dagli addetti alla "pubblica sicurezza" di Mark Zuckerberg.

Facebook si difende parlando di violazioni delle condizioni del servizio (gli amministratori di pagine di questo tipo dovrebbero sempre utilizzare identità reali, pena la cancellazione del profilo) o di automatismi che intervengono in maniera sistematica ogni qual volta si verificano certe condizioni che minano la sicurezza della piattaforma (a volte anche per errore).

Che si voglia chiamare censura oppure no c’è chi crede che sia giunto il momento di fare un po’ di chiarezza sul fenomeno. È il caso di Ramzi Jaber, un imprenditore palestinese residente a Standford che alla fine di giugno metterà online un sito web web per segnalare tutti i casi di cancellazione e disattivazione di pagine e profili di Facebook, Twitter, YouTube, Flickr, Google Plus e via dicendo. L'obiettivo? Dare alla Rete un'indicazione sulla portata del fenomeno per migliorare le regole e i meccanismi di governance delle reti sociali.

"I social media hanno un potere enorme per le persone che vogliono far sentire la loro voce, soprattutto quelli che sono stati schiacciati verso il basso negli ultimi 60 anni. Questo è un modo per assicurarsi che queste reti, questi intermediari privati, rendano conto delle proprie azioni e che la libertà di parola non sia soppressa."

Il problema non riguarda solo quei Paesi nei quali le ingerenze della politica nella comunicazione sono all'ordine del giorno. Anche in Europa, per non andare troppo lontano, c’è chi ha deciso di sollevare la questione. Sono i membri di Europa contro Facebook, un gruppo che punta a limitare i "poteri forti" di Facebook portando al vaglio delle varie autorità nazionali alcune delle questioni più spinose legate al tema della privacy: la tracciatura dei dati personali, il consenso e il controllo degli utenti sulle opzioni di condivisione piuttosto che la giacenza immotivata di dati confidenziali nei server del social network.

Il creatore del gruppo, Max Schrems, ha un obiettivo ben preciso: evitare che Facebook si appropri delle nostre vite digitali, spingendo verso una normativa condivisa fra i vari Stati dell'Unione. L’idea è che Facebook, ma anche Google Plus e le altre piattaforme sociali siano aperte al pari di qualsiasi altra rete di servizi. Come le ferrovie, le telecomunicazioni, l’elettricità o il gas sono interoperabili, allo stesso modo anche Facebook dovrebbe aprire il proprio codice verso le terze parti affinché chiunque possa transitare sulla sua infrastruttura (e dunque sulla sua rete di contatti) ed eventualmente farci un business. Detto in parole povere significa trasformare Facebook da quel giardino recintato che è in una prateria sterminata e impossibile da controllare. Un'eventualità che Mark Zuckerberg, c’è da scommeterci, farà di tutto per scongiurare.

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Roberto Catania

Faccio a pezzi il Web e le nuove tecnologie. Ma coi guanti di velluto

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