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Economia

Le banche italiane falliscono e gli italiani pagano

Dopo mesi è arrivata la "soluzione di sistema": finisce tutto sulle spalle dei cittadini che si fanno carico del crac di Popolare Vicenza, Veneto Banca e Mps

Dopo tanti omaggi al mercato, dopo calcoli complicati e algoritmi esoterici, alla fine paga Pantalone. Il salvataggio della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca costa 5,2 miliardi subito più una garanzia di 12 miliardi. A Intesa Sanpaolo che si prende le attività buone, il Tesoro ha girato un bonifico da 4,8 miliardi, il resto serve per gli esuberi di personale e per la bad bank nella quale raccogliere sofferenze e crediti deteriorati.

"Non si poteva fare altrimenti", è il refrain che ripete il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. "Lo Stato ci guadagnerà", promette addirittura Fabio Panetta, il vicedirettore della Banca d'Italia al quale fa capo la vigilanza, e cita l'esempio del Banco di Napoli che ha prodotto un tesoretto di circa mezzo miliardo. Ma ci sono voluti esattamente vent'anni. E con le sofferenze in bilancio al 35 per cento del loro valore di libro, non sarà semplice guadagnarci.

Il thriller delle banche italiane è un romanzo seriale, siamo arrivati alla terza puntata e non è finita qui.

La prima, la più drammatica, si svolge a Siena, protagonista il Monte dei Paschi; la seconda riguarda le quattro banche del Centro Italia (Etruria, Chieti, Ancona e Ferrara); la terza le due venete. E tutte sono accompagnate dalla stessa cacofonia di errori, omissioni, conflitti d'interesse e complicità politiche.

La storia in Veneto

La Popolare di Vicenza era sotto sorveglianza dal 2001 quando l'euro non circolava e alla Banca d'Italia regnava Antonio Fazio. Già allora il prezzo delle azioni non rispondeva a nessun criterio obiettivo. Un richiamo, sanzioni, un esposto alla magistratura. Ma tutto continua come prima. Tra il 2007 e il 2008 la vigilanza fa il bis. L'anno successivo gli ispettori rilevano che non si è tenuto conto del calo di redditività. Una tiratina d'orecchi e la Bpv promette a Mario Draghi di cambiare.

Nel 2011 mentre l'Italia rischia la bancarotta, Gianni Zonin vanta i suoi successi: le azioni quotano 62,5 euro mentre quelle di colossi come Unicredit precipitano. Un miracolo? No, è che i titoli vengono comprati dai clienti con i soldi prestati dalla banca.

Il presidente vignaiolo fa il bello e cattivo tempo, assume ex dirigenti della Banca d'Italia e persino l'ex ragioniere generale del Tesoro, Andrea Monorchio. E la vigilanza? Fino al 2013 non c'era bisogno di autorizzazione se i riacquisti restavano sotto il 5 per cento del capitale. Dall'1 gennaio del 2014, invece, occorre il permesso in ogni caso. Così, con le nuove norme del Meccanismo di vigilanza unico nato con l'Unione bancaria, il bubbone viene alla luce.

L'anno si chiude con perdite per 750 milioni. Agli inizi del 2015 la Banca d'Italia (è governatore Ignazio Visco) manda gli ispettori e impone di aumentare il capitale. Finisce l'era Zonin, cambiano i vertici, ma la grande illusione è che tutto possa essere sistemato in famiglia. Veneto Banca, dove impera Vincenzo Consoli (per il quale la Procura di Roma il 27 giugno ha chiesto il rinvio a giudizio con altri 10 amministratori e manager), non sta meglio della popolare vicentina e la gestione sembra una fotocopia: crediti facili, azioni sopravalutate, titoli passati ai clienti. Ad Arezzo salta la Popolare dell'Etruria, a Chieti la cassa di risparmio, e così ad Ancona e a Ferrara.

Mps e il dossier Bad Bank

Mentre il bubbone Montepaschi si gonfia. Bombe a orologeria pronte a scoppiare, ma l'esecutivo guidato da Enrico Letta, con Fabrizio Saccomanni all'Economia, ingoia la direttiva del bail-in, per di più retroattiva e introdotta con due anni d'anticipo.

Matteo Renzi, arrivato a Palazzo Chigi, non ne sa e non ne capisce nulla; Pier Carlo Padoan, installato al governo come garante verso Bruxelles, glissa. Nell'autunno arriva sul suo tavolo il dossier bad bank per liberare le banche da sofferenzee crediti a rischio.

- LEGGI ANCHE: Cos'è una bad bank

Si tratta di un veicolo finanziario del quale farebbero parte il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti, idea sostenuta anche da Visco, ma osteggiata da Margrethe Vestager, guardiana della concorrenza europea che la bolla come aiuto di Stato. Padoan ripiega verso una versione più modesta chiamata Gacs (Garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze). Finora è un flop e viene utilizzata solo dalla Popolare di Bari.

Nel novembre 2015 sono liquidate le quattro banche del Centro e si scopre all'improvviso che il bail-in entra in vigore due mesi dopo. È tutto un gran gridare senza costrutto. Le aziende vengono vendute per un euro (tre alla Ubi e quella ferrarese alla Popolare dell'Emilia Romagna). I detentori di obbligazioni perdono i loro investimenti. Le sofferenze vengono valutate 18 centesimi, cifra che diventa il punto di riferimento in Borsa.

Comincia così una pioggia di vendite e sui mercati si diffonde la convinzione che il sistema stia per crollare. Il Fondo interbancario di tutela dei depositi è all'asciutto, servono subito 3,6 miliardi di euro e nasce in fretta e furia il Fondo di risoluzione per il quale Unicredit, Intesa e Ubi anticipano 4 miliardi. La commedia degli errori si arricchisce di nuovi attori.

Il tentato recupero

Nel luglio del 2016, Renzi resta incantato da Jamie Dimon, il big boss di Jp Morgan, e gli affida il salvataggio di Mps. Padoan non è d'accordo, ma deve umiliarsi fino a telefonare all'amministratore delegato Fabrizio Viola per annunciargli il licenziamento (il manager verrà poi inviato a gestire il pasticcio veneto). Si dice che il piano della banca americana sia condizionato al successo del sì al referendum sulla riforma costituzionale. In realtà rimane a bagnomaria perché non convince.

Finché il 5 dicembre, con la vittoria del no e le dimissioni di Renzi, anche Dimon si sfila. Di fronte al mancato aumento di capitale e al rischio di una corsa agli sportelli, Mps rischia di saltare. Alla vigilia di Natale il nuovo capo del governo, Paolo Gentiloni, vara un decreto che mette a disposizione 20 miliardi (tutti a debito); 5,5 servono per Mps con lo Stato azionista con oltre il 70 per cento. Il tabù è rotto, torna lo Stato banchiere.

Padoan la chiama "ricapitalizzazione precauzionale", la presenta come un modello in Europa e la ripropone anche per le due banche venete in lista d'attesa. Ma la Vestager dice no. "Facciamo come Tim Geithner negli Usa" propongono alcuni dirigenti del Tesoro: "Dividiamo i 20 miliardi tra le banche in pericolo ed entriamo coni nostri uomini".

Padoan non se la sente e cerca altre soluzioni, tutte miseramente fallite: prima l'idea che bastasse trasformare le popolari in spa perché arrivasse un fiume di capitale dal mercato, poi la fusione e l'intervento dei pezzi grossi. Federico Ghizzoni, capo azienda di Unicredit, tenta di portare in borsa la Bpv, ma viene sconfessato dal mercato.

Nel frattempo Maria Elena Boschi, secondo il racconto di Ferruccio De Bortoli, gli chiede di salvare la Banca dell'Etruria dove il babbo è vicepresidente.

La Bce considera la fusione tra la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca il matrimonio tra un cieco e uno zoppo. La Commissione Ue vuole che al salvataggio partecipino i privati con 1,3 miliardi. I mesi passano, i depositi fuggono. Nessuno vuole sborsare un centesimo, tuttavia nei conti si poteva trovare un cuscinetto per accontentare la Vestager, per esempio con i 13 miliardi di obbligazioni senior.

Bussano a Vicenza anche gli emissari di Deutsche Bank per conto di quattro fondi internazionali che propongono di partecipare con obbligazioni per 1,3 miliardi più 300 milioni in contanti. Ma tutto finisce nel silenzio, finché non arriva Intesa Sanpaolo. L'amministratore delegato Carlo Messina dichiara deciso: nessun regalo, "se oggi le due banche fossero fallite, dieci miliardi di garanzie pubbliche sarebbero andati in fumo". E avverte: il decreto non deve essere cambiato in Parlamento, altrimenti salta tutto.

Chi ha vinto e chi ha perso?

Intesa e i suoi azionisti, sono i vincitori insieme agli obbligazionisti delle banche venete che escono indenni e ai sindacati che hanno subito fatto il tifo per Messina: 4 mila dipendenti ci rimettono il posto, ma non il reddito garantito dallo Stato. Perde chi cercava una soluzione di mercato.

Due terzi degli azionisti veneti hanno accettato un accordo a 9 euro e firmato una liberatoria, il resto vuole il rimborso a 62 euro e va in tribunale. Il contenzioso giudiziario finisce nel conto della bad bank, cioè a carico dei contribuenti onesti che pagano per colpe ed errori che non hanno commesso. È la "soluzione di sistema".

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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