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Economia

La buona plastica

Gli oceani sono minacciati da milioni di tonnellate di rifiuti che non si degradano. Alcune aziende italiane stanno trovando una soluzione

Quale filo unisce i 150 milioni di tonnellate di materie plastiche finite nei mari di tutto il mondo e il rialzo del 139 per cento messo a segno in Borsa nel 2017 dalla società italiana Bio-on? Il collegamento sta nella proprietà della tecnologia di trovare le soluzioni ai guai che noi umani continuiamo a combinare. E a trasformare queste soluzioni in un business. Nel caso della quasi sconosciuta Bio-on, o della Aquafil o ancora della Novamont, si tratta di aziende italiane impegnate a inventare materiali o nuovi procedimenti per ridurre l’uso della plastica tradizionale, quella fatta con idrocarburi, e di conseguenza i danni all’ambiente marino.

Un problema enorme: secondo la Ellen MacArthur Foundation di Chicago ogni anno nei mari di tutto il mondo finiscono più di 8 milioni di tonnellate di plastica. Se non ci sarà un cambio di rotta, nel 2050 gli oceani potrebbero contenere più pezzi di plastica che pesci. Nel Mediterraneo circa il 96 per cento dei rifiuti galleggianti è composto da plastica e il problema non interessa solo la superficie: i rifiuti sono stati ritrovati anche a più di tremila metri di profondità.

Ma non bisogna pensare solo alle bottigliette e ai sacchetti: in realtà la maggior parte della plastica che sporca i mari è invisibile, o quasi. Come sottolinea una relazione dell’associazione romana Marevivo, presieduta da Rosalba Giugni, oltre il 90  per cento della plastica che soffoca gli oceani si trova in forma di microplastica: frammenti minuscoli che abbondano nei cosmetici e nei prodotti per l’igiene personale (come creme, bagnoschiuma, dentifrici, maschere, rossetti, schiume da barba). Un'altra fonte inaspettata sono i tessuti sintetici che rilasciano microplastica quando vengono lavati: un singolo capo di vestiario produce più di 1.900 fibre di microplastica durante un lavaggio.  Risultato: chi consuma abitualmente pesce ingerisce più di 11mila frammenti di plastica ogni anno, come denunciano gli scienziati dell’Università di Gand in Belgio. E polimeri di origine chimica finiscono anche nell’acqua che beviamo. Insomma, la plastica è entrata nel nostro ciclo vitale.

Ormai in Occidente è scattata la guerra alla microplastica e in Italia la Camera ha approvato un anno fa una legge, promossa dall’associazione Marevivo, che ne vieta l’utilizzo nei cosmetici. Ma il provvedimento è fermo al Senato: la sua approvazione, spiegano a Marevivo, sarebbe un passo importante visto il primato nei cosmetici dell’Italia, che produce oltre il 60 per cento del make-up mondiale.

Un problema che potrebbe risolvere un'invenzione della Bio-on (che fattura appena 5 milioni di euro, realizzati per ora attraverso la cessione di licenze): la società bolognese, nata dieci anni fa e quotata dal 2014, ha scoperto che alcuni batteri alimentati da sottoprodotti dell’industria agricola producono un polimero molto simile a quello realizzato dall’industria petrolchimica per fare la plastica. Il risultato è che è possibile costruire oggetti di plastica identici a quelli che usiamo tutti i giorni (dai giocattoli agli occhiali fino alle microsfere contenute nei cosmetici) ma completamente biodegradabili. «Abbiamo venduto 13 licenze per la produzione di 130 mila tonnellate di questo polimero» dice Marco Astorri, presidente e amministratore delegato della Bio-on. «Tra gli utilizzatori ci sono fornitori di plastiche per l’industria dell’auto». Come spiega Astorri, un paraurti realizzato con questa bioplastica funziona come un normale paraurti, ma gettato in una discarica si degrada in appena 70 giorni. «È come una baita di legno: resiste alle intemperie ma il legno di cui è fatta si decompone se lasciato in terra o in acqua».

Per quanto riguarda in particolare la plastica contenuta nei cosmetici, la Bio-on avvierà la produzione di bioparticelle il prossimo anno in uno stabilimento con una capacità iniziale di mille tonnellate all’anno. «Abbiamo deciso di fare un impianto dimostrativo» sottolinea Astorri «per impostare uno standard, ma ovviamente poi continueremo a cedere le licenze perché serviranno milioni di tonnellate di nuovi micro biopolimeri per far fronte alla richiesta del settore». È l’inizio di un futuro senza plastica?

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Guido Fontanelli