John Elkann e Sergio Marchionne
ANSA/ANGELO CARCONI
Economia

Marchionne e il segreto della sua malattia: una storia antica in Fiat

Ancora ci si chiede perché il manager nascose il suo stato di salute a John Elkann. Forse voleva essere lui a preparare la successione nel pieno delle sue funzioni. D'altronde, al di là delle apparenze, in Fiat sono sempre stati controversi i rapporti tra i dirigenti e la proprietà

Da una parte, il caso estremo di Steve Jobs, fondatore e capo indiscusso della Apple, che il 1° agosto del 2004 comunica ai mercati e al mondo, fino ad allora ignari di tutto, di essersi sottoposto con successo a un intervento chirurgico per la rimozione di un cancro al pancreas, e da allora ragguaglia passo-passo l'opinione pubblica sul suo stato di salute fino alla morte, nel 2011.

All'estremo opposto, Sergio Marchionne, che scompare dalla scena per un intervento chirurgico "alla spalla" - essendo fino ad allora considerato soltanto "molto stanco" - e invece nel giro di un mese o poco più muore in clinica, tuttora senza che una causa clinica ufficiale venga comunicata al mondo e ai mercati.

In mezzo, casi americani celebri, come l'ultimo, di Nicola Mendelsohn, capo di Facebook in Europa, che annuncia sul social di avere un linfoma follicolare. O un altro di 25 anni fa, che impressionò molto in Italia: Vittorio Cassoni, amministratore delegato dell'Olivetti fino al '92, che si ammalò, si vide ridurre le deleghe pur restando al suo posto alcuni mesi, poi addirittura per sopravvenute incomprensioni con Carlo De Benedetti se ne andò alla Xerox come numero due mondiale e dopo settanta giorni morì. Il massimo della divulgazione, all'uso americano; il massimo della riservatezza, all'uso piemontese.

La relazione difficile tra proprietà Fiat e i suoi manager

Tutto qui? Mica tanto. In questa storia triste della scomparsa di uno dei manager più carismatici della storia industriale italiana resta più di una zona d'ombra. Ed emerge come la conferma della relazione difficile tra la proprietà Fiat e i suoi numeri uno.

John Elkann, capo della famiglia Agnelli, che va tre volte in clinica a Zurigo e non ha mai potuto vedere Marchionne malato. Che scrive di lui: "Sergio è stato il miglior amministratore delegato che si potesse desiderare e, per me, un vero e proprio mentore, un collega e un caro amico". Non però al punto di confidarsi sulle sue condizioni di salute effettive, sul fatto di essere in cura da tempo, sul fatto - attestato da una lettera inviata al Corriere della Sera dall'avvocato storico degli Agnelli Franzo Grande Stevens "che i suoi polmoni erano stati aggrediti" e che "era vicino alla fine".

Nessun giudizio, naturalmente, è possibile. Neanche sul punto, delicato, relativo alla trasparenza verso i mercati che Fca - come qualunque gruppo quotato - è tenuto ad avere sulle condizioni di salute delle sue risorse-chiave. Fca non sapeva, per il semplice fatto che Marchionne non aveva fatto né autorizzato confidenze, lo ha confermato all'agenzia Bloomberg anche la sua compagna Manuela Battezzato. Forse sperando di poter guarire; o almeno convinto in buona fede di avere comunque davanti a sé il tempo necessario per uscire di scena serenamente, nell'aprile prossimo, come già da tempo annunciato formalmente.

Da Romiti a Morchio, storia di altri rapporti imperfetti

Quel che mancava era però, certamente, un piano di successione manageriale condiviso: lo confermano le dimissioni-lampo di Alfredo Altavilla dopo la nomina del collega Mike Manley al vertice di Fca, a riprova che l'uscita di scena di Marchionne era avvenuta a giochi ancora aperti. E questo per la "policy" delle corporation americane non è il massimo. È come una nemesi, del resto, quella dei rapporti imperfetti tra la proprietà Agnelli e i top manager Fiat. Lo stesso Cesare Romiti, a sua volta celebrato da molti come un "salvatore" del Lingotto, nel '93 si contrappose all'Avvocato, sbarrando la strada all'ascesa del fratello Umberto, che disistimava, in sintonia col banchiere di riferimento del gruppo, Enrico Cuccia. E si contrappose al punto da ottenere per sé il voto-chiave, in consiglio d'amministrazione, su tutte le decisioni sulla governance aziendale: potenzialmente anche contro la famiglia.

Fece di più - e di peggio, secondo la versione della famiglia Agnelli - Giuseppe Morchio, che aveva gestito la Fiat come a.d. per 15 mesi vicino a Umberto Agnelli presidente e che, all'indomani della morte di quest'ultimo, chiese invano di assommare anche la presidenza e finì defenestrato in 24 ore, e sostituito proprio da Marchionne: "Avrei ultimato il risanamento e restituito l'azienda alla famiglia", si lamentò Morchio, ma la famiglia pensava che invece l'avrebbe affidata a un gruppo di scalatori guidato, secondo molti gossip di allora, da Roberto Colaninno.

Alla base c'è una contraddizione in termini tra il ruolo di socio-guida indiscusso che John Elkann riveste in Fiat come capo della famiglia, socio di controllo col 42 per cento dei diritti di voto, e la sua lontananza dal livello gestionale, accentrato da Marchionne a livelli paragonabili solo con quelli di Vittorio Valletta. Pesare così tanto e decidere così poco: era un ossimoro. Non a caso oggi il nuovo vertice è diviso in tre (anzi quattro): Mike Manley ceo di Fca, Suzanne Heywood presidente con Derek Neilson ceo ad interim per Cnh, e Louis Camilleri in Ferrari. Tutti a riporto di Elkann.


(Articolo pubblicato sul n° 32 di Panorama in edicola dal 2 agosto 2018 con il titolo "Il segreto di Marchionne")


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Sergio Luciano