Il regista americano David Fincher è l’autore di un film complesso che ricostruisce la genesi del capolavoro di Orson Welles, del 1940, partendo dalla discussa figura dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (Mank), interpretato da Gary Oldman. E tra ricordi d’infanzia, critiche feroci e amicizie di peso, il filmaker rievoca con Panorama la sua incredibile carriera.
«Se non fossi diventato un filmaker, probabilmente sarei un serial killer» dice David Fincher, 58 anni, col suo noto umorismo freddo. E non perché al tema ha dedicato due film di successo (Seven e Zodiac), ma per un lontano ricordo d’infanzia. «Per il compleanno dei nove anni, chiesi un fucile ad aria compressa o una piccola macchina da presa per filmini a 8 millimetri. E anche se c’era un’enorme differenza di prezzo, mi pare 13 dollari contro 170, i miei genitori che erano pacifisti optarono ugualmente per la macchina da presa…».
Il padre, Jack Fincher, caporedattore della rivista Life, morto nel 2003, è presentissimo anche nel suo nuovo film, Mank (Netflix), che arriva ben sei anni dopo il precedente, Gone girl (L’amore bugiardo). Ed è proprio suo padre Jack l’autore della sceneggiatura che Fincher ha cercato di portare sullo schermo per 30 anni. E tanti sono pronti a scommettere che sarà la volta buona, per cui è meglio che cominci a far posto nella libreria per l’Oscar, dopo le nomination per Il curioso caso di Benjamin Button e The Social network.
Mank racconta la tempestosa lavorazione di Citizen Kane, Quarto potere nel 1941, il primo film diretto da Orson Welles a 24 anni, ancora considerato il più bello di tutti i tempi. E svela l’arcano: la sceneggiatura l’ha scritta la coppia che l’ha firmata (Herman J. Mankiewicz, detto Mank, che nel film è interpretato da Gary Oldman, e lo stesso Welles) vincitori di un’Oscar che nessuno dei due andò a ritirare. È in bianco e nero, perché la raccomandazione che Fincher aveva trasmesso ai suoi collaboratori era che dovesse somigliare a una pellicola dimenticata su uno scaffale polveroso, proprio accanto a quella di Quarto potere. Rivivono personaggi leggendari: il miliardario editore William Hearst con la sua amante, l’attrice Marion Davies, Louis B. Mayer, cofondatore della Metro Goldwyn Mayer; David O. Selznick, produttore di Via col vento e di Rebecca, Upton Sinclair, scrittore e premio Pulitzer, Ben Hecht, sceneggiatore nominato sei volte all’Oscar.
Con Panorama Fincher ha celebrato il suo grande ritorno, ripercorrendo le tappe della sua straordinaria carriera.
Successo. «Hollywood è cambiata? Forse in peggio… Il curioso caso di Benjamin Button fu giudicato un successo dagli executive, non perché pensavano fosse un bel film, ma perché nei primi tre giorni incassò 27 milioni di dollari, più di ogni mio film precedente. È l’ossessione del primo week end, su cui ormai si valuta il destino di un film. Per fortuna ci sono anche quelli che crescono di valore con gli anni: per esempio proprio Quarto potere… Il mio Fight club in tre giorni incassò appena 11 milioni di dollari, un vero flop. Ma poi il dvd superò i 100 milioni di dollari…».
Brad Pitt. «In qualche modo è il mio alter ego, con lui ho fatto più film che con chiunque altro. Se è un attore sottovalutato è perché lui ha deciso di esserlo, gestendosi come preferisce. È molto intelligente e avrà una carriera lunga come quella di Paul Newman. È uno dei pochi che non si cura solo del suo ruolo, ma dell’intero film. Un giorno gli telefonai per avvertirlo che per la parte del suo primo amore in Il curioso caso di Benjamin Button, avevo scelto una determinata attrice. Lui fa: “È brava, ma penso ci sia di meglio”. Gli concedo cinque minuti per trovare un nome più adatto. Dopo quattro minuti mi richiama scandendo le parole: “Til-da Swin-ton”. Effettivamente era un nome migliore del mio».
Attori. «Dicono che odio gli attori come si diceva di Alfred Hitchcock, che faccio ripetere le battute 100 volte se occorre. Sia Michael Douglas ne Il gioco sia Jake Gyllenhaal in Zodiac se ne sono risentiti. Non credo avessero problemi col risultato, ma col metodo. Ci sono attori che arrivano sul set dopo essersi preparati tutta la notte e altri ancora in preda al dopo sbronza. Io non ho niente contro i suggerimenti di chi fa funzionare le cose meglio, ma certo non li accetto da chi le peggiora».
Cineclub. «Mio padre mi portava sempre ai cineclub a vedere Cantando sotto la pioggia, L’angelo sterminatore, Robin Hood, Gunga Din, e tutti quelli di Danny Kaye. Tra i più moderni mi colpirono 2001: Odissea nello spazio, Lawrence d’Arabia, West side story, La stangata, Lo squalo. Ma fu Butch Cassidy and the Sundance Kid che mi convinse a fare il regista. Vidi in tv il documentario sul “making of” e fu uno shock: fino ad allora credevo che la lavorazione durasse il tempo reale del girato o poco di più, per via degli spostamenti tra le location».
Censura. «In Fight club Helena Bonham Carter a letto con Brad Pitt si accendeva una sigaretta dopo il rapporto sessuale e diceva una frase forte: “Voglio avere il tuo aborto”. Dopo le proiezioni di prova, Laura Ziskin, presidente di Fox 2000, mi dice: “È nel libro e nella sceneggiatura che ho comprato, lo so, ma va cambiata, è troppo offensiva”. Allora facemmo un patto: avrei rigirato la scena, ma una volta sola. Così feci dire a Helena: “Era dalle elementari che nessuno mi scopava così”. Quando la sentì Laura Ziskin si mise le mani nei capelli».
Consigli. «Imparare bene il mestiere non ha mai impedito a nessuno di diventare un genio, mi ripeteva mio padre quando da ragazzo mi dividevo fra disegnare fumetti, dipingere, fare sculture, scattare foto e usare il registratore. Ho abbandonato tutto inseguendo sempre qualcosa di nuovo che mi permettesse di realizzare quello che avevo in testa. Idem quando per tre anni ho lavorato alla Industrial Light & Magic di George Lucas collaborando agli effetti speciali di Il ritorno dello Jedi, La storia infinita e Indiana Jones e il tempio maledetto. A differenza di molti colleghi che se ne fregano altamente delle luci o dell’audio, io voglio sapere un po’ di tutto per non trovarmi in balia di chi sul set è pigro e cerca di convincermi che una cosa non si può fare».
Critiche. «Faccio collezione di critiche. Le ingrandisco e le attacco sulle pareti dell’ufficio come quadri. La mia preferita non riguarda Alien 3, il mio primo film e il più tartassato, ma Fight club. Alexander Walker del London Evening Standard scrisse: “Non è solo l’incredibile brutalità del film che ha spinto i critici a domandarsi se la Twenty Century Fox, la compagnia del miliardario Rupert Murdoch che lo ha finanziato, sapeva quello che stava facendo. Il film non è solo anticapitalista, ma antisocietà e antidio”».