«Un ruminante della filosofia, un imbecille delle Prealpi». Contro Heidegger: il sadismo maniacale e esilarante di Bernhard
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«Un ruminante della filosofia, un imbecille delle Prealpi». Contro Heidegger: il sadismo maniacale e esilarante di Bernhard

Tempo fa un ingegnoso siterello catalogava e proponeva in versione polygen i famigerati insulti di Shakespeare, che già l’Huffinghton Post si era divertito a tirare fuori dalle commedie, e più recentemente ci siamo goduti più di un brivido …Leggi tutto

Tempo fa un ingegnoso siterello catalogava e proponeva in versione polygen i famigerati insulti di Shakespeare, che già l’Huffinghton Post si era divertito a tirare fuori dalle commedie, e più recentemente ci siamo goduti più di un brivido nel leggere le insolenze che celebrità di vario calibro e genere rivolgevano a (da altri) stimatissimi colleghi, raccolte in un sadichetto Dictionnaire des injures littéraire (la mia preferita è quella di Savador Dalí su Louis Aragon: «Così tanto arrivismo per arrivare a così poco»).

Che qualcuno di autorevole faccia a pezzi l’opera per noi indigeribile di un venerato genio ci fa piacere: offre frecce per i nostri archi storti, fornisce argomentazioni feroci al nostro debole odio, che rinfocola fino a una specie di catarsi finale, dopo la quale l’odiato ci torna quasi simpatico. Ma non si tratta solo di questo.

«Il tutto e il perfetto non li sopportiamo», dice Bernhard in Antichi maestri, di cui ho anticipato qualche riga la volta scorsa. «Dobbiamo andare a Roma e constatare che San Pietro è una costruzione abborracciata e di pessimo gusto, che l’altare del Bernini è un esempio di ottusità architettonica, diceva. Dobbiamo vedere il Papa faccia a faccia e constatare personalmente, per poterlo sopportare, che è un uomo sprovveduto e grottesco come tutti gli altri. Dobbiamo ascoltare Bach e sentire come di colpo fallisce, ascoltare Beethoven e sentire come di colpo fallisce, ascoltare Mozart e sentire come anche lui di colpo fallisce. E così dobbiamo procedere anche coi cosiddetti grandi filosofi, persino con gli artisti dello spirito che ci sono più cari, diceva».

Dai capolavori esposti alla Pinacoteca di Vienna, Reger si sposta a cercare il difetto nello spirito e nelle sue manifestazioni: Pascal, Montaigne, Voltaire.

Ma il trattamento è lo stesso: tanto i capolavori quanto i geni non vengono semplicemente insultati, il che neutralizzerebbe la carica di questa operazione, ma osservati con ardore e partecipazione, fino a che (ma questo è solo un evento evitabile, un’occorrenza tra le altre) emerge quasi da sé il difetto, il punto di corruzione, come lo chiama Stendhal in Dell’amore, quando parla della fase che segue la cristallizzazione delle qualità dell’amato («È semplicissimo, basta avere l’idea di una perfezione per vederla in ciò che si ama»).

Quello che Reger vuole non è smontare la bellezza di ciò che appare bello, per poi degradarne cinicamente l’autore, o soccombere al luogo comune che vuole l’anticonformismo in una posizione superiore rispetto al conformismo; no: agisce per desiderio: per poter affermare, sulla base del proprio insindacabile giudizio, “questa perfezione non è perfetta”. È una missione: «La mente dev’essere una mente che cerca, una mente che cerca gli errori, gli errori dell’umanità, una mente che cerca il fallimento». E siccome il fallimento è frutto dell’essere umano, niente ci avvicina più agli altri che l’avversione: «Mi hanno sempre interessato esclusivamente gli esseri umani, diceva, perché per natura mi disgustavano, niente mi attrae più  intensamente degli esseri umani e nello stesso tempo niente mi disgusta più profondamente di loro».

Il difetto, quella grinza viva, quel punto ghiacciato nel tiepido mare dell’opera umana, emerge solo se cercato: è premio di sé stesso. Vedendolo, Reger si riconosce come vivo.

«Sì, dico, El Greco, bello, ma quel brav’uomo non è mai riuscito a dipingere una mano! E poi dico, bello, Veronese, ma quel brav’uomo non è mai riuscito a dipingere un volto. E quanto a quel che le ho detto oggi a proposito della fuga, diceva ieri, non c’è stato un solo compositore, neppure tra i più grandi, che abbia composto una fuga compiuta, nemmeno Bach c’è riuscito, che pure era la calma e la purezza, la limpidezza compositiva in persona».

Non si salva nessuno dalla maniacale ricerca del difetto di Reger, che in una meravigliosa identificazione, tipica della prosa di Bernhard, finisce per essere il guardiano stesso a cui si rivolge e che ci riferisce le sue filippiche, e ovviamente il creatore di entrambi. Pittori, scultori, scrittori, poeti patri, mostri sacri, musicisti, filosofi: tutti finiscono nel cerchio magico dell’imperfezione.

A dire il vero qualcuno si salva, stagliandosi come amatissima compiutezza, ma il vero problema della predilezione, per Reger come per tutti, è il rischio che sia condivisa: «Tutto ciò che è di moda mi ha sempre disgustato. Probabilmente soffro anch’io di quello che sono solito chiamare egoismo artistico, in fatto di arte voglio che tutto appartenga soltanto a me, voglio essere soltanto io a possedere il mio Schopenhauer, il mio Pascal, il mio Novalis, e il mio amatissimo Gogol’, voglio essere solo e soltanto io a possedere questi prodotti artistici, queste invettive artistiche geniali, io solo voglio possedere Michelangelo, Renoir, Goya, disse, quasi non riesco a sopportare che al di fuori di me ci sia qualcun altro che possiede e gode i prodotti di questi artisti».

Ma che succede quando “di moda” diventa invece proprio quel cosiddetto capolavoro che la nostra ricerca instancabile ha caricato di difetti, quello che abbiamo colto nel fallo della sua inamabilità? Che accade quando un coacervo di lacune, uno spregevole individuo, diventa faro di generazioni che lo venerano, e ce lo propinano in tutte le salse a tutte le ore, dovunque, negli ambienti che frequentiamo e in quelli che invece non ci accolgono – così che non ci resta più nessuna speranza se non retrocedere in una specie di sub-gusto? Come sviluppare nei suoi confronti altro che una monomania fobica (che è ben diversa dalla monofobia)?

Per capirlo, basta aspettare che Bernhard arrivi a Heidegger, «quel ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava». L’avversione si trasforma in puro godimento.

Perché Heidegger è adorato: «Heidegger se lo sono pappato tutti a grandi cucchiaiate, con una fame da lupi, per decenni (…). Se le capita di recarsi a un ricevimento della piccola borghesia o anche della piccola borghesia semiaristocratica, è molto probabile che Heidegger le venga servito già prima dell’antipasto, lei non ha ancora tolto il cappotto e già le viene offerta una fettina di Heidegger, non si è ancora seduto e già la padrona di casa è entrata portando Heidegger, per così dire, insieme allo sherry sul vassoio d’argento».

Eppure, dice Reger (cioè Bernhard, e noi con lui), era un personaggio ridicolo e pomposo:

«Heidegger è sempre stato soltanto comico, piccolo borghese come Stifter, altrettanto spaventosamente megalomane, un imbecille delle Prealpi (…).

è un budino di letture, insapore ma facilmente digeribile (…).

ho sempre avuto la sensazione che Heidegger fosse un ciarlatano, il quale per tutta la vita non ha fatto altro che sfruttare tutto quanto gli stava intorno, e sfruttando a destra e a manca si abbronzava sulla sua panchina di Todtnauberg».

Se non fosse chiaro, precisa ancora:

«Heidegger aveva un volto ordinario, non un volto dal quale trapelasse l’ingegno, era un essere del tutto sprovvisto d’ingegno, assolutamente privo di fantasia, assolutamente privo di sensibilità, un ruminante della filosofia tipicamente tedesco, una vacca della filosofia gravida in permanenza».

Bernhard ci conduce verso l’apoteosi del suo odio, per il tramite esilarante e maniacale di questa infilata:

«Ho visto una serie di fotografie che una fotografa di eccezionale talento ha fatto a Heidegger con quella sua aria da pingue ufficiale di stato maggiore in pensione che ha sempre avuto, diceva Reger, e un giorno gliele mostrerò; in quelle fotografie Heidegger scende dal letto, si rimette a letto, Heidegger dorme, si risveglia, indossa i mutandoni, infila i pedalini, beve un sorso di mosto, esce dalla casamatta e contempla l’orizzonte, intaglia il bastone, si mette il berretto, si toglie il berretto dalla testa, tiene il berretto in mano, divarica le gambe, alza la testa, china la testa, mette la mano destra nella sinistra di sua moglie, sua moglie mette la mano sinistra nella sua destra, cammina davanti a casa, cammina dietro la casa, si dirige verso casa, si allontana da casa, legge, mangia, prende qualche cucchiaiata di minestra, si taglia una fetta di pane (fatto in casa), apre un libro (scritto in casa), chiude un libro (scritto in casa), si china, si stiracchia, e così via, diceva Reger. Roba da vomitare. Se già i wagneriani sono insopportabili, figurarsi gli heideggeriani».

Fino alla deliziosa, incantevole stoccata finale:

«Heidegger me lo vedo sempre seduto sulla panchina davanti a casa sua nella Foresta Nera accanto a sua moglie, la quale, nel suo perverso entusiasmo per il lavoro a maglia, lavora ininterrottamente per confezionargli le calze invernali con la lana che lei stessa ha tosato dalle loro pecore heideggeriane».

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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