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'Negli occhi di Timea', di Luca Poldelmengo - L'intervista

L'autore romano ci parla del suo ultimo romanzo, riflettendo sul rapporto fra privacy e sicurezza e sul ruolo della scrittura nei confronti della realtà

Fra i libri noir italiani più interessanti in circolazione prende posto, a nostro parere, Negli occhi di Timea, quinto romanzo dello scrittore e sceneggiatore romano Luca Poldelmengo. Si tratta del secondo e ultimo capitolo della serie iniziata nel 2014 con il libro Nel posto sbagliato (Edizioni e/o), incentrata sulla squadra segreta di polizia Red, unità speciale che utilizza la privacy delle persone (in particolare i loro ricordi) come strumento investigativo. È un romanzo ricco di spunti: parla di giochi di potere fra criminalità e politica, di corruzione, di sicurezza, libertà e moralità, con non pochi rimandi alla nostra attualità.

Per capirne di più abbiamo avuto la possibilità di parlarne direttamente con l’autore. Ma prima di passare all’intervista con Luca Poldelmengo, ecco una sintesi di Negli occhi di Timea.

negli-occhi-di-timea-poldelmengo-eo-copertinaCopertina di 'Negli occhi di Timea', di Luca PoldelmengoEdizioni e/o


IL ROMANZO

Negli occhi di Timea è una storia di vendetta: protagonisti sono ancora i gemelli Vincent e Nicolas Tripaldi ex membri di spicco della Red, che in questo libro troviamo fuggiaschi e allo stesso tempo in cerca di vendetta contro i loro vecchi superiori senza scrupoli, il premier Mattia Manera e il professore Luca Basile, personaggi che hanno abusato della Red per la propria sete di potere. Durante la loro fuga, sullo sfondo di un intrigo fra mafia albanese e vertici dello stato italiano riguardo un traffico illegale di rifiuti, viene commessa una strage sanguinosa. L’unica testimone è una bambina di nome Timea, orfana dalla storia misteriosa che a quanto pare ha visto qualcosa che potrebbe scatenare fatali conseguenze.

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L’INTERVISTA

L’unità segreta di polizia chiamata Red usa l’ipnosi per rintracciare nelle menti delle persone ricordi, incontri, sguardi in grado di fornire informazioni utili alle indagini, violando però gravemente la privacy dei liberi cittadini. Da cosa sei partito per partorire questa idea?

Esiste una risposta semplice e una più articolata a questa domanda. Quella semplice è che leggendo un romanzo di Giancarlo De Cataldo (Onora il padre) trovai un riferimento all’uso da parte dell’FBI dell’ipnosi ipermnesica nelle indagini. Tecnicamente tutto è partito da lì. Iniziai a fare delle ricerche, e scoprii che in molti paesi è una pratica consolidata. In quel momento nella mia mente scattò un click. La cronaca ci racconta che sempre più spesso le indagini che giungono a buon fine lo fanno grazie alla registrazioni delle telecamere di videosorveglianza che ormai sono dappertutto: e se fossimo noi le prossime telecamere? Ognuno di noi?
A partire dagli attacchi alle torri gemelle nelle società moderne sicurezza collettiva e privacydel singolo sono sempre meno conciliabili. I cittadini usati come telecamere mi sembravano un buon modo per ragionare intorno a questa dicotomia, per provare a sondarne i limiti.


Supponiamo di poter avere nella realtà di oggi uno strumento simile a quello che utilizza la Red. Che ne pensi? Saremmo disposti, come società, a cedere informazioni sulla nostra vita privata in nome di una maggiore sicurezza?

Se la domanda fosse posta in questo modo sarei portato a risponderti di no (non a caso nel romanzo la Red lavora in incognito). Il punto è che sono convinto che il grado di elasticità dei cittadini, di quello che sono risposti a cedere in termini di diritti, sia proporzionale alla loro percezione del pericolo. Una società in cui è istillata la paura è una società a cui è più facile chiedere delle rinunce in cambio della sicurezza, nessuno vive bene nel terrore. Quindici anni di strategia della tensione dovrebbero avercelo insegnato.


Giochi di potere fra istituzioni, politica e criminalità organizzata, mass media distorti e volgari, votati all’intrattenimento e alla conquista dell’audience: siamo già nel mondo dei gemelli Tripaldi?

Credo che Negli occhi di Timea sia un libro per certi versi fintamente distopico: affermati professionisti pronti a pagare baby prostitute, servizi segreti deviati, politici corrotti, mafiosi che per denaro avvelenano la loro stessa terra, non mi sembra di aver inventato nulla. Con la sola eccezione della Red, forse…


Buoni e cattivi non esistono nelle tue storie. In fondo, nessuno sembra potersi salvare completamente. Perché?

Per lo stesso motivo per il quale nei miei romanzi non ci sono eroi, personaggi largamente positivi con cui invito il lettore a riconoscersi, alla stessa maniera non troverete neppure il male assoluto. Ciascuno ha il suo spazio di umanità, la sua luce in fondo al tunnel, per quanto questo possa essere profondo. Negli occhi di Timea è un romanzo che ruota intorno al potere e alla vendetta, e potere e vendetta sono due motori in grado di tirare fuori il peggio da ciascuno. Nonostante ciò credo che dentro ogni mio personaggio sia presente un tratto di umanità, di calore, qualcosa che potrebbe salvarlo, ma non è detto che ci riesca.


Solo Timea, la bimba testimone, è innocente in questo intreccio drammatico. Appare come un piccolo lume di purezza, come una carezza. È ciò che percepiscono alcuni dei protagonisti del romanzo, ed anche il lettore non può non notarlo. Chi è, cosa rappresenta Timea per te?

I personaggi di questa storia devono scendere a compromessi con la propria morale per ottenere ciò che vogliono: vendetta, potere, vedere realizzato il sogno di una vita. Ciascuno ne è cosciente, ma è altrettanto pronto a scagionarsi: tutti siamo bravi ad assolverci almeno quanto lo siamo ad accusare gli altri. Succede poi però che, in modo diverso, tutti loro si troveranno a fare i conti con Timea.
Timea è una bambina di cinque anni, lei sì è davvero innocente, pura. E loro dovranno affrontare questa ineluttabile verità, dalla quale non potranno nascondersi. Timea è lo specchio che li mette inesorabilmente a nudo di fronte alle loro coscienze, che per certi versi ne rivela il lato umano, e che ci mostrerà fino in fondo chi sono veramente.


Entrambi i romanzi della serie Red, Nel posto sbagliato e Negli occhi di Timea, sono noir completi, che funzionano perfettamente, in grado di dire tutto in modo efficace. Eppure sono anche molto brevi, veloci, incalzanti. Perché questa scelta?

Il respiro di un mio romanzo non lo decido preventivamente, è qualcosa che ha molto a che vedere col mio istinto di narratore. Chiedo molto al mio lettore: cambio continuamente il punto di vista attraverso il quale racconto la storia, lo invito a mettersi in panni molto scomodi, gli pongo molte domande senza dargli neppure una risposta, non giudico i miei personaggi e perciò non gli indico nemmeno con chi deve stare. Direi che la mia non è una lettura emotivamente semplice, anche perché spero che, chiuso il romanzo, nella testa del mio lettore resti qualcosa che vada al di là dei personaggi e della trama, un dubbio, una domanda che senza leggermi non si sarebbe posto. Ecco, forse la brevità delle mie storie ha a che vedere con tutto questo, o forse no.


Una domanda più ampia: cosa significa per te scrivere? Qual è il tuo scopo? A chi parli?

Per me raccontare storie è un bisogno, che sia per la narrativa o per il cinema. Questo è il mio modo di esprimermi, di comunicare con gli altri. Di lasciare qualcosa di me. Condividere uno sguardo su un mondo che non conoscevo, che ho scoperto seguendo la mia curiosità e che spero possa interessare anche gli altri. Ma soprattutto mi interessano i dubbi, le zone grigie. Credo di rivolgermi a chi, come me, trova nelle domande, nell’interrogarsi sulle cose, il senso più profondo delle storie.

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Andrea Bressa