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Ancora una volta, ci salva la cassa integrazione

Ancora una volta, ci salva la cassa integrazione

La rubrica: Portugal Street

Per scongiurare fratture sociali, occorre ricorrere agli ammortizzatori sociali. E non vagheggiare la decrescita felice o il capitalismo di Stato.


L’improvvisa crisi economica Covid-19 con il suo pesante impatto sulla struttura produttiva e occupazionale delle economie industrializzate rischia di determinare forti fratture sociali. Questo pericolo preoccupa oggi – giustamente – tutti i decisori politici.

Ognuno per la sua parte cerca di costruire un fronte di difesa e di approntare azioni per mitigare queste fratture. Nondimeno, appare estremamente chiaro che le strategie nazionali non sono sufficienti e che solo strategie comuni e coordinate sono in grado di ridurre i tempi della crisi e permettono di disegnare rapide e più efficienti traiettorie di uscita.

Le difficoltà dell’Unione Europea a costruire questa strategia pongono seri interrogativi sul futuro di questa costruzione. Si pensava che la crisi del 2008 avesse creato le condizioni per un maggiore coordinamento delle politiche economiche e financo per politiche comuni. Il rafforzamento di alcuni strumenti avvenuto in questo decennio però si è dimostrato incapace di garantire politiche comuni di risposta e siamo ancora sottoposti alle liturgie dei Consigli europei, totalmente inefficaci e incoerenti rispetto alle sfide attuali.

Non una incoraggiante prospettiva. In questo quadro, i sistemi nazionali di protezione sociale sono messi duramente alla prova. La loro capacità di raggiungere tutte le categorie di lavoratori e lavoratrici, in una crisi così complessa e diffusa, appare ovviamente limitata. La riforma degli ammortizzatori sociali realizzata prima con la riforma Fornero e poi corretta dal Jobs Act evidenzia una serie di criticità irrisolte. Ancora una volta, ci salva il vecchio strumento della cassa integrazione, migliorato sostanzialmente nella crisi del 2009, e che garantisce di tenere vivo il legame tra impresa e lavoratore.

E se la cassa integrazione ordinaria permette di sostenere le imprese medio-grandi, la cassa integrazione in deroga, introdotta agli inizi degli anni Duemila, ci assicura un intervento diffuso sul territorio per settori, aziende e persone che altrimenti sarebbero rimasti privi di protezioni e ai quali non si può applicare la logica del reddito di emergenza. E le molteplici critiche piovute su questo strumento come fonte di discrezionalità politica nella concessione di aiuti e di frammentazione geografica negli aiuti non sono oggi più accettabili.

La logica dell’omologazione non funziona in questo Paese, lo dovremmo avere ben capito. I vari modelli di sviluppo sono quelli che hanno assicurato ai vari territori, anche nell’epoca della globalizzazione, sviluppo e ricchezza individuale. E, d’altra parte, sono state le casse in deroga a evitare che, nella crisi del 2008-2009, il Paese perdesse pezzi importanti di imprese e che i lavoratori subissero la perdita del posto di lavoro e un loro conseguente impoverimento.

Così appare fuori luogo qualsiasi discussione sull’utilità o meno di impiegarlo anche in questa crisi. Piuttosto preoccupa che nell’epoca della finanza moderna e del denaro digitale si sia rimasti indietro sulle procedure di accettazione delle richieste e di erogazione delle risorse. Procedimenti amministrativi complessi e tempi dilatati non sono assolutamente giustificabili. E creano rimbalzi di responsabilità tra livelli di governo inaccettabili, con comprensibile moltiplicazione di meccanismi finanziari di anticipo che sarebbero stati evitabili se il dialogo Governo-Regioni avesse funzionato secondo i più normali criteri di cooperazione e di rispetto istituzionale.

Certo non è facile fare arrivare risorse ai lavoratori. Tutti i Paesi si trovano confrontati a questi problemi, se è vero – come riportava nei giorni scorsi un articolo del Financial Times – che anche gli Stati Uniti stanno avendo problemi nel loro «helicopter money» (una politica monetaria non covnenzionale, ndr) a trasferire il sostegno monetario alle persone. Tuttavia, da noi, proprio perché il meccanismo era stato già adottato nel 2009, ci si sarebbe aspettati un miglioramento delle sue capacità. E questo non è accaduto.

Ora, però, non si prenda a pretesto l’incapacità amministrativa nella gestione degli ammortizzatori tradizionali per vagheggiare estensione di redditi universali o salari minimi per legge. Non si approfitti – nella prossima fase due o tre (non è ben chiaro) – di una crisi anzitutto sanitaria per disegnare lo Stato della decrescita felice, del capitalismo di Stato, dei sussidi monetari per tutti, della regolazione dei fenomeni economici solo per legge, distruggendo un modello di produzione e di welfare state che nelle crisi ha sempre evitato la rivolta sociale e la disgregazione.

Si ricordi che quando si è provato a fare questo, piegando il nostro tessuto produttivo e sociale a sistemi tipici di altri Paesi si è finiti in un vicolo cieco, in una deresponsabilizzazione di massa, in un arretramento della nostra ricchezza. Risulta a qualcuno che i tedeschi abbiano mai messo in discussione il loro modello di Kurzarbeit? Ovviamente è no, anzi lo hanno esportato. E noi non possiamo esportare il nostro modello di cassa integrazione e di relazioni industriali? Ovviamente si, anche perché, quando lo abbiamo fatto, tutti ci hanno guardato con grande interesse e maggiore rispetto.

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