Incidente in vacanza: l'uscita di una spalla a ciel sereno
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Incidente in vacanza: l'uscita di una spalla a ciel sereno

Le cose belle non irrompono nella vita quotidiana come un fulmine. Le cose brutte sì. E ci fanno capire chi siamo, chi abbiamo intorno, cosa possiamo imparare, e cosa c'è da festeggiare.

Le cose belle non irrompono nella quotidianità come un fulmine. Non succede mai che tu stia girando la polenta e BAM succede una cosa meravigliosa che ti sconvolge la vita. Forse ti vengano in mente la vincita della lotteria, la nascita di un bambino, la fine della guerra, ma sono cose che si preparano nel tempo, che abbiamo desiderato, o per le quali abbiamo fatto qualcosa affinché si avverassero. 

Invece le cose brutte . Irrompono nella quotidianità come un fulmine. Senza essere attese ne desiderate. Ci trovano impreparati, e le mutande rotte non possono importarci di meno. 

Tre giorni fa’ il maestrale era quasi finito. Arriviamo in spiaggia con le bimbe per l’ora di pranzo e appoggiamo le borse sotto l’ombrellone. Qualcuno propone di fare un bagno prima di mangiare. Allora Valentina, mia figlia più grande, si avvia con Stefano verso il mare affondando i piedi nella sabbia calda, sorridenti, inconsapevolmente felici. Un amico le avvicina una tavoletta, perché potessero giocare con l’unica onda che rompeva a riva.

Io intanto sistemo gli asciugamani e metto la protezione alla piccolina mentre Camila, mia figlia di mezzo, va all’ombrellone della sua amica a salutarla e programmare il loro pomeriggio, costellato di gelato e conversazione sotto l’albero secolare e buche a non finire.

Ed ecco che BAM Valentina esce dal mare e corre verso di me piangendo disperata, urlando che il papà si è fatto male al braccio. Dietro di lei vedo Stefano, con la faccia contratta dal dolore e il lato destro deforme. Gli era uscita la spalla, ma molto malamente. Mi dispero, mi tremano le gambe e capisco che non si soffre solo per identificazione, si soffre anche per l’altro e basta. Mi ripeto internamente che devo mantenere la calma, mi dice di tirarle il braccio e io tiro, ma non funziona, la spalla non rientra. 

Si sdraia urlando, la gente lo circonda, tanto in buona fede quanto inutile, fanno domande, uno racconta di quando giocava a rugby e un’altra di un cugino a cui era successo. Vorrei prenderli a pugni. Prendo invece due telefoni, chiamo la guardia medica con uno e il 118 con l’altro. Quando l’operatrice del 118 mi risponde “si calmi, non è niente, ora cerco di inviarle un’ambulanza” ci chiediamo se non sia meglio salire su una macchina e andare via subito da lì. Intanto Stefano non sente più la mano, è fredda e le vene del braccio si gonfiano.

Siamo in Sardegna, nella spiaggia di Piscinas, dove veniamo ogni estate a ricaricare le nostre anime di profumo di elicriso e mirto, di cieli sconfinati e vita sarda; a inchinarci ai piedi della natura selvaggia e le anime dei minatori che popolano la montagna di detriti dove non cresce nulla, terra sfruttata e abbandonata vigliaccamente, senza lasciarle nemmeno una mancia. E’ un posto magico, e come tale, difficile da raggiungere. Il primo Ospedale attrezzato è a San Gavino: venti minuti di “asfalto ecologico” (come mettersi dentro un frullatore) più quaranta chilometri tormentati da tornanti.

Siamo abitudinari, amanti insistenti dei luoghi dove sentiamo che i nostri piedi hanno radici. E questo ritornare sempre, ci ha permesso di fare amicizie con le quali ogni anno ci si ritrova, stessa sperduta spiaggia, stesso altalenante mare. Allora Paolo caricò Stefano in macchina e arrivò volando a San Gavino, dove dopo aver tentato la manovra ad occhi aperti, gli anno rimesso a posto le ossa sotto anestesia totale.

Quella notte con le bimbe abbiamo fatto fatica ad addormentarci, e ho pregato a un dio senza religione, per tutti quelli che ricevono notizie più brutte, per quelli che vedono oscurarsi il cielo di colpo e senza rimedio.

Stefano è tornato il giorno dopo, ancora scosso dal dolore e la paura provati, con la barba lunga e il braccio destro da tenere immobile per un mese. Lui però è un vero guerriero, di quelli che riempiono di domande soprattutto se stessi e le battaglie perse. Al momento si prepara per la ripresa e due sono i rimedi da usare all’occorrenza, uno profano e uno sacro: antinfiammatorio e accettazione.

Accettazione soprattutto per sedersi dal lato del passeggero mentre io guido sui tornanti, mentre gli riempio gli occhi di schiuma da barba, mentre caricherò i bagagli a fine vacanza e sbaglierò ingresso nel porto, mentre guiderò a Roma come una findelmondana disorientata, e anche quando farò Roma-Milano a centoventi chilometri all’ora. 

Ma stappo bottiglie con dimestichezza. Perché c’è vita, abbiamo amici ed esiste la Sardegna del sud, autentica e selvaggia. Perché c’è il maestrale che rende il mare una bestia, e prima o poi passa, e quella bestia diventa una pozza di acqua cristallina. Perché bisogna festeggiare. Ho conquistato un guerriero, e per un mese sarò la sua mano destra.

 

 

 

 

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Mercedes Viola