Dopo infinite discussioni e polemiche, il progetto di un nuovo impianto al posto del vecchio Meazza si è arenato. Così, fra amministrazione comunale e società sportive è rottura. Mentre Milan e Inter sono già pronte a scappare altrove…
Avanti con le barricate di caprifoglio, insormontabili ma non inquinanti. Talvolta i Verdi non sanno cosa vogliono, in questo caso è chiarissimo ciò che non vogliono: un nuovo stadio a Milano. «Costruire un impianto a La Maura è contro tutto» dice il leader Carlo Monguzzi che ha trascinato mezzo Pd dalla sua parte, fa dell’immobilismo cosmico una virtù e sogna il derby in mezzo a un prato della Martesana con gli zainetti a fungere da pali delle porte e le mamme fiorate che servono la limonata ai pargoli.
Non è trascorso un mese dall’implosione del progetto San Siro, con Inter e Milan pronte a fare le valigie, che in Comune già volteggiano come condor due mozioni. Una è della maggioranza green, l’altra della Lista Sala che rappresenta un sindaco sempre più in imbarazzo. Sono contro l’idea del club rossonero di realizzare il manufatto nell’area ippodromo del quartiere Lampugnano, di proprietà Snai ma in piccola parte vincolata perché inserita nel Parco agricolo sud. Tutto in stile nimby: «Il parco agricolo va tutelato», «È l’ultimo polmone verde di Milano».
Nella metropoli del «fare e disfare» siamo all’ultimo stadio. Dopo oltre quattro anni di discussioni, progetti modificati, comitati civici, impuntature radical e «dibattiti pubblici» da assemblea studentesca, il braccio di ferro fra amministrazione e storiche società sportive ha fin qui ottenuto due risultati: 1) bloccare l’avveniristico progetto della Cattedrale che avrebbe dovuto sostituire il vecchio Meazza, costo totale 1 miliardo e 200 milioni di investimento; 2) far deflagrare i club, non più intenzionati a proseguire il cammino insieme, anzi determinati a percorrere strade differenti dopo 76 anni di coabitazione. «Giuseppe Sala passerà alla storia come il sindaco che ha fatto scappare Inter e Milan da San Siro» ha punzecchiato Matteo Salvini, milanista; lo stesso borgomastro ha dovuto ammettere: «Molti, in consiglio comunale, il nuovo stadio non l’hanno mai voluto». Un segno di debolezza, di difficoltà nel governare le molte anime che compongono la giunta di sinistra, soprattutto di incapacità nel mediare le ragioni del dissenso e incanalarle verso un interesse comune. Sala rimpiange i Berlusconi e i Moratti «che non avrebbero mai cambiato casa». I nuovi proprietari americani e cinesi sono meno romantici. «Sono in perdita, non sono enti filantropici e nessuno può costringerli a ristrutturare il vecchio Meazza» dice il sindaco. Oggi un impianto di proprietà è un asset del valore finanziario e commerciale di 100 milioni a stagione, la differenza che passa fra squadre di medio cabotaggio e top club.
Così all’orizzonte si intuisce un paradosso: chi non vuole il nuovo stadio al grido di «Basta cemento, ammodernate San Siro» corre il rischio di doverne sopportare tre. Il primo è il rudere vuoto del vetusto impianto pieno di gloria, oggi stupendo negli scorci delle foto notturne ma obsoleto nell’anima. Il tifoso privo di «vip pass» che si avventura nelle scale interne cercando un bagno fa un viaggio nel tempo che si conclude dentro lo stadio Lenin di Mosca all’epoca di Konstantin Cernienko. Il Meazza è destinato a rimanere sui calli del Comune, che perderà gli 8 milioni di affitto delle due squadre e dovrà infiocchettarlo per un paio di concerti di Vasco Rossi all’anno. Mozioni a parte, il secondo stadio sarà quello del Milan, che ha opzionato l’area La Maura. Il proprietario del club Gerry Cardinale (titolare di RedBird Capital Partners) è un esperto di impianti sportivi, gestisce lo Yankee Stadium di New York e il Dallas Cowboys Stadium in Texas. Nella sua seconda visita a Milano (la prima nel 2022 per festeggiare lo scudetto) è stato chiaro: «San Siro è stato costruito nel 1926 e ristrutturato nel corso degli anni. Vogliamo che il Milan e la Serie A tornino ai livelli top, e per farlo servono le infrastrutture. Stiamo valutando vari siti per il nuovo impianto, abbiamo esperienza nel costruirli e nel differenziare le entrate da questo tipo di infrastruttura». Nell’operazione sarebbe coinvolto Stefano Boeri, teorico delle giungle urbane, che si defila con un «no comment» ma anni fa aveva proposto un immaginifico, modaiolo e non si quanto realizzabile stadio verticale.
Quanto alla condivisione con l’Inter, Cardinale ha intonato il De Profundis. «Sono un sostenitore dell’essere indipendenti, ma al momento non c’è niente che escludiamo a prescindere. Credo che l’Inter pensi al suo futuro, noi ci concentriamo sul nostro». È un biglietto di addio incollato allo specchio, «c’eravamo tanto amati» ma ognuno per sé. Ed è la liquidazione definitiva del nuovo San Siro.
Steven Zhang, proprietario del club nerazzurro, ha colto al volo l’opzione per darsela a gambe. Aveva bloccato da tempo un’area privata di proprietà della famiglia Cabassi a Rozzano (Milano sud) vicino alla fermata della metro e agli svincoli autostradali che servono il Mediolanum Forum di Assago. Negli anni 80 doveva ospitare il grattacielo Grissino d’oro. Si tratta di un milione di metri quadrati utilizzabili senza dover passare sotto le forche caudine di «chiunque ha un tiramento» a palazzo Marino, come cantava Francesco Guccini quando stava avvelenato. Il desolante scenario si riverbera su tutto il Paese. Se nella città più europea, con maggiori potenzialità finanziarie e l’unica ad avere due squadre che hanno vinto la Champions League si muore di immobilismo, nel resto d’Italia non può andare meglio. La politica dei veti incrociati ha funzionato a Roma, dove il progetto fallito di Tor di Valle ha fatto scappare il vecchio proprietario giallorosso James Pallotta. A Firenze, dove nel 2026 dovrebbe concretizzarsi il restyling del Franchi, il presidente Rocco Commisso ha ricordato al sindaco Dario Nardella: «Se non fosse stato per la Fiorentina, non si sarebbe mosso niente». In controtendenza Udine e Bergamo, dove pubblico e privato hanno trovato lampi di saggia coesistenza.
C’è altro. Inter e Milan non vogliono più avere a che fare con la palude degli assessorati milanesi e con l’incubo dei vincoli architettonici. Per la Soprintendente alle Belle arti, Emanuela Carpani, a oggi sul Meazza non ne esistono ma nel 2025 scadono i 70 anni dalla realizzazione del secondo anello e «servirà una verifica di interesse ulturale». Alla larga. Se qualcosa non funzionasse nei nuovi progetti, prima di tornare al Meazza i due club sono pronti ad accettare l’invito di Sesto San Giovanni, dove l’area ex Falck è a disposizione e il sindaco Roberto Di Stefano li attende a braccia aperte.
Resta San Siro, con la storia gloriosa e le ruggini del tempo. «È distruggere un monumento» ha detto Berlusconi. L’unica certezza è che il 6 febbraio 2026 ospiterà la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina. Secondo il fondatore di Barley Arts, Claudio Trotta, organizzatore di spettacoli e concerti, «può diventare il regno dell’intrattenimento, per la musica pop, rock e italiana. Per l’opera e il teatro, per il rugby. Già oggi, dai concerti per soli due mesi all’anno, il ricavato è elevato: 8-9 milioni di euro, senza contare l’indotto». Scenario ottimistico per un destino che non prevede più i derby, le notti di Champions e i 70 mila fedeli che pagano il biglietto ogni settimana. Con Sandro Mazzola e Gianni Rivera in tribuna a osservare il prato deserto. Fu proprio l’Abatino milanista (copyright Gianni Brera) a sibilare tre anni fa con spirito provocatorio: «Se Milan e Inter vogliono un nuovo stadio acquistino il terreno da un privato». Ops.