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La Turchia dilaga nel Mediterraneo però fa anche sognare le italiane

La Turchia dilaga nel Mediterraneo però fa anche sognare le italiane

  • Il «mare nostrum» ora è diventato il mare di Istanbul
  • Le serie tv girate sulle rive del Bosforo

Dagli interventi armati in Siria e Libia, dove viene approntata una base navale, alla crescente aggressività intorno a Cipro e alle isole greche. In nome del neo-ottomanesimo e della caccia agli idrocarburi, il presidente Erdogan vuole la sua «Patria blu».


Si è detto, è stata come un’atomica. L’esplosione che ha devastato Beirut il 4 agosto sconvolgendo il già fragilissimo Libano, ha disseminato morte e dubbi. Incidente o attentato? C’è chi sussurra di un coinvolgimento di servizi segreti stranieri. Qualcuno facilmente indica Israele e il suo Mossad in azione di boicottaggio contro un arsenale di Hezbollah, altri puntano il dito sui servizi turchi. Movente: destabilizzare il Libano arrivando ad accreditare la Turchia come potenza di riferimento. Fantapolitica? Forse. Ma in fondo non sarebbe che l’ultimo tassello nella grande strategia espansionistica del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, improntata su un imperialismo di riconquista che ha portato la bandiera con la mezzaluna ben oltre i suoi confini nazionali.

«Erdogan sta cercando di ampliare gli obiettivi del neo-ottomanesimo e ci sta riuscendo» ricorda il generale (in ausiliaria) Giorgio Battisti, già comandante del Corpo d’Armata italiano di reazione rapida della Nato, militare che ha affrontato numerose missioni tra Somalia, Bosnia e Afghanistan. «È arrivato nel Golfo Persico dove supporta il Qatar, in Somalia dove ha una presenza pesante, in Yemen dove pare stia entrando con una alleanza anti-saudita costituita da Qatar-Fratelli musulmani-ribelli Houthi. E ovviamente Siria e Libia, le guerre più vicine a noi».

È proprio la Libia il tema del momento. La Turchia vi è intervenuta militarmente rovesciando le sorti della guerra a favore del legittimo governo di Fayez al-Serraj e garantendosi un accordo per la divisione delle aree di giurisdizione marittima ricche di vastissimi giacimenti di gas. Il governo di Tripoli ha concesso alla Turchia la possibilità di estrarre gas e petrolio in un’area strategica per più nazioni del Mediterraneo orientale (come Egitto, Israele e Cipro) e vantare una posizione decisionale sui gasdotti che attraverseranno quei tratti di mare. Non solo: ha in programma la costruzione di una nuova base navale a Misurata. Insomma, il Mediterraneo da conquistare, come ai tempi antichi.

L’obiettivo non è neanche taciuto, anzi, è dichiarato in una teoria di qualche anno fa denominata «Mavi Vatan», Patria blu. «È un simbolo, un concetto, una dottrina» scrive l’uomo che l’ha concepita, Cem Gürdeniz, ammiraglio turco a riposo ma ascoltatissimo nelle stanze del potere di Ankara quanto nelle televisioni nazionali. «Le acque che ci spettano sono l’estensione della nostra Patria e la marittimizzazione della Turchia e del suo popolo è il nostro grande obiettivo strategico di questo secolo». Se non fosse abbastanza chiaro, ha anche precisato: «Attraverso i greco-ciprioti e la Grecia gli imperialisti cercano di rubare circa 200 chilometri quadrati dalla nostra Patria blu, nel mare Egeo e nel Mediterraneo orientale. Dobbiamo definire una Seconda Sèvres con l’inevitabile estensione della nostra sovranità marittima in un’area di circa 462 mila chilometri quadrati».

Concetto ripreso dallo stesso Erdogan quando in maggio ha detto: «Siamo pronti a proteggere con forza ogni fascia della nostra Patria blu». Non per niente gli investimenti in armamenti navali negli ultimi anni sono triplicati arrivando a 1,2 miliardi di dollari. E alle 112 navi da guerra oggi in attività, se ne dovrebbero aggiungere 24 entro i festeggiamenti per i 100 anni della Repubblica, nel 2023. Come se i muscoli turchi non fossero già evidenti, in marzo si è organizzata la più grande esercitazione marittima con cento navi a solcare simultaneamente i tre mari della Turchia. Il nome dell’operazione? Scontato: Patria blu.

Le lancette del revanscismo turco dunque si fermano alla fine Prima guerra mondiale e al trattato di Sèvres (di cui il 10 agosto ricorrevano i 100 anni) quando del grande impero ottomano non rimase che l’Anatolia. Poco importa se prima ancora quelle erano le acque di Roma, o di Venezia, se quello era il mare nostrum. Oggi, con i russi che si pavoneggiano in parate della dichiarata «task force permanente della Marina russa nel Mediterraneo» davanti alla base navale di Tartus (Siria), e con i cinesi che si comprano i porti di mezza Europa e fanno accordi con Siria e Libano (via Iran) per arrivare a mettere le loro navi da guerra in questo mare, Erdogan ha capito che il momento per agire è questo.

Lo scontro principale non può che riguardare il suo vicino, la Grecia, dove queste ambizioni sono vissute con crescente preoccupazione. Ai confini dell’Egeo meridionale, dove in anni normali i traghetti turistici solcano il mare tra effluvi di crema abbronzante, l’aggressività della Turchia sta diventando insostenibile. È sì l’importante partner nell’Alleanza atlantica, ma anche l’acerrimo avversario di sempre. Sul piatto ci sono le Zone economiche esclusive (Zee) per lo sfruttamento delle risorse naturali. Si cercano idrocarburi e si dà il caso che ce ne siano parecchi anche sotto la piattaforma continentale cui appartiene il grande Paese asiatico. Ma da cui spuntano terre che turche non sono.

Come l’isola di Kastellorizo, ultimo baluardo greco verso l’Asia. 580 chilometri dal continente patrio, due chilometri e mezzo da Antalya (paragone: tra l’Elba e Piombino ce ne sono 10). La conosciamo come il luogo incantevole dove Gabriele Salvatores girò Mediterraneo ma ha una storia sanguinosa fatta di invasioni e saccheggi e bombardamenti. Ankara, il 22 luglio, ha inviato a ridosso della sua costa una missione navale di esplorazione energetica affiancata da una robusta scorta militare.

«Erdogan usa le isolette più vicine al versante turco con spregiudicatezza misurata, sperando di intimorire l’interlocutore e fare così i propri comodi» dice senza mezzi termini Armando Sanguini, già ambasciatore di lungo corso e segretario generale al ministero degli Affari esteri, oggi advisor dell’Ispi, Istituto di studi di politica internazionale. «I Paesi che potrebbero opporsi, anziché andare “a vedere” il suo gioco come si fa nel poker, preferiscono dargli corda con la convinzione che prima o poi si spezzerà. Una tattica che abbiamo già visto contro il nazismo, e non ha funzionato».

«In questo mondo in cui non ci sono più regole, la Turchia si sta comportando nel Mediterraneo come la Cina sta facendo nel Mar cinese meridionale: gioca su più campi sfruttando quella che Erdogan stesso giudica come la debolezza delle democrazie occidentali, ovvero il timore di intervenire» analizza il generale Battisti. «Il presidente turco gioca sulle paure degli altri come un bullo, anche rafforzato dall’alleanza di fatto con la Russia, sicuro che i Paesi occidentali non entreranno mai in conflitto per il controllo delle risorse, comunque non per quelle intorno a Kastellorizo. La Grecia ha reagito muovendo quasi tutta la sua flotta di superficie, i sottomarini e gli aerei, ma è stata soltanto un’operazione di intendimenti. Nella realtà chi morirebbe per quell’isoletta?».

Per questo alle proteste di Atene per la grave violazione delle sue acque territoriali, la risposta del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu è stata quasi candida: «È assurdo che una piccola isola che si trova accanto alle coste turche abbia una giurisdizione marittima che si estende per 200 miglia nautiche in ogni direzione. Quale Paese accetterebbe una situazione del genere?». Solo l’intervento degli Stati Uniti ha fatto sospendere le operazioni di ricerca, ma neanche 24 ore dopo Ankara già annunciava una nuova missione esplorativa che sarebbe durata fino al 20 settembre, stavolta nella Zona economica di Cipro. La nave Barbaros Hayrettin Pasa ha puntato Famagosta (nota per il feroce assedio con cui esattamente 450 anni fa gli ottomani strapparono l’isola ai veneziani) insieme a un vascello armato. Stesso copione: dopo le proteste ha sospeso le operazioni. Sospeso, non annullato.

Era già accaduto nel 2019. La Turchia rivendica per sé e per la Repubblica turca di Cipro Nord (creata in seguito all’occupazione militare del 1974 ma che nessuno riconosce tranne la stessa Ankara) il diritto di beneficiare dello sfruttamento delle risorse di gas che si trovano in questa parte di Mediterraneo. La Turchia non ha mai aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare ritenendo che l’unico diritto si debba basare sulle piattaforme continentali. Dunque esplorazioni e trivellazioni sarebbero legittime perché le acque territoriali che Atene e Nicosia rivendicano come proprie, semplicemente non appartengono a loro ma alla stessa Turchia.

Cipro è uno storico tassello del neo-ottomanesimo, ideologia nata proprio con l’invasione militare del 1974. Il ministro della Difesa turco Hulusi Akar non poteva essere più chiaro quando, pochi giorni fa, ha esaltato le truppe di stanza sull’isola: «La questione cipriota è la causa nazionale della Turchia. Siamo pronti a tutto per proteggere i diritti dei nostri fratelli e portare una pace permanente nella regione». Più di 30.000 soldati presidiano oggi la Repubblica turca di Cipro Nord. Un problema cristallizzato nella semi indifferenza di chi ha lasciato le cose come stavano, come una bomba troppo delicata da maneggiare. Ma qualcuno ha dimostrato di non temere le bombe. «La Turchia opera sapendo che nessuno la può contrastare con le armi» prosegue il generale Battisti. «L’Europa è renitente, riluttante e indecisa, sta solo a guardare, intimorita dall’abitudine di Erdogan di ricattare – leggasi rifugiati tenuti sul suo territorio a caro prezzo» gli fa eco l’ambasciatore Sanguini.

Eppure avrebbe tutti i motivi di occuparsi del «suo» Mediterraneo, un luogo dove ogni giorno di più si intrecciano i commerci con le ambizioni geostrategiche mondiali. «Rappresenta l’1% di tutti i mari ma ha il 20-25% del traffico commerciale globale. È punto di raccordo di Europa, Africa e Asia. Confluisce tutto qui, compresi i traffici di migranti e di droga» ricorda Battisti. Ma i Paesi più titolati a occuparsene nicchiano, e lasciano campo aperto a chi ha fame di spazio e risorse. «La presenza turca in Libia è un debito che ha contratto colpevolmente l’Unione europea, Italia in primis, con posizioni contrapposte e una politica ondivaga che ha finito per perdere credibilità» sentenzia Sanguini. «Avete mai sentito una dichiarazione italiana sulla Turchia? No».

In maggio si è levata una protesta congiunta di Grecia, Cipro, Egitto, Francia ed Emirati arabi che hanno chiesto di rispettare i diritti marittimi dei Paesi sovrani. Ankara li ha bollati come «alleanza del male». Vista la situazione, prima o poi si dovrà scegliere tra il male e il peggio.

La dolce vita di Istanbul

Trentaduesima puntata, Sanem dopo mille peripezie si ritrova con Can, il suo grande amore, nel luogo magico dove si erano incontrati per la prima volta. Lui la stringe forte a sé, avvicina il suo viso a quello di lei e finalmente la bacia. «Allah! Allah!» (una delle esclamazioni più usate in queste serie, ndr). Il tutto dura la frazione di un secondo, perché lei, travolta dall’emozione pur amandolo scappa via. Questa è una delle scene clou di Daydreamer la serie tv, o per meglio dire il Dizi turco, che sta facendo impazzire l’Italia televisiva raggiungendo l’apice del successo nella fascia oraria pomeridiana su Canale 5.

Il fatto che Sanem e Can, (rispettivamente gli attori Demet Özdemir e Can Yaman) due dei protagonisti più amati, si bacino solo alla puntata numero 32 e poi chissà quando bisseranno questa effusione, non deve stupire, fa parte dei valori e delle tradizioni di cui sono infarcite queste serie. Valori esportati in 86 Paesi del mondo, oltre l’Italia e veicolati da prodotti televisivi confezionati ad arte.

Un fenomeno che, per restare nel nostro Paese, coinvolge milioni di donne dai 30 ai 60 anni in quelli che vengono definiti Turkish drama ma che, in patria, mantengono orgogliosamente il nome di Dizi. Guai a chiamarle soap opera, perché quelle prodotte in Turchia e girate principalmente nel cuore di Istanbul sono storie epiche, travolgenti con narrazioni uniche che facendo leva sul romanticismo, intrecciano saghe che tengono incollati allo schermo chi entra nei meccanismi astuti delle storie.

Attualmente la Turchia, grazie alle vendite internazionali e al pubblico globale, è seconda solo agli Stati Uniti nella distribuzione televisiva mondiale, con pubblico che oltre all’Italia spazia in Spagna, Russia, Cina, Corea e America Latina. Il centro di ogni «dramma» è la famiglia dove in un contesto socio-economico in conflitto, una lei proveniente da un quartiere povero e un lui solitamente ricco, nascono storie d’amore osteggiate. Il tutto infarcito, nazionalisticamente, con valori e musiche tradizionali, nonché cerimonie come quelle del fidanzamento che vengono fatte conoscere all’estero come nessuna pubblicità, seppur efficace, sarebbe capace di fare. Un «cavallo di Troia», che attraverso i buoni sentimenti esporta e rende familiari non solo cultura ma anche costumi sociali, lontanissimi rispetto a quelli dell’Occidente.

Il «sistema Dizi» ha dunque raggiunto in Italia proporzioni imponenti, se titoli come Kiraz Mevsimi, Dolunay, Erkenci Kus, Bay-Yanlıs, dicono poco ai più, ma quando diventano Cherry Season, Bitter Sweet-Ingredienti d’amore o Daydreamer, tutte serie trasmesse in varie stagioni su Canale 5, raggiungono veri record di ascolto. Dati alla mano, si parla di 2 milioni e 500.000 telespettatori giornalieri con punte del 25% di share e un’incidenza femminile dai 30 ai 44 anni che tocca il 35%. A questi numeri vanno aggiunti quelli di coloro che hanno visto le serie in streaming, in lingua turca con sottotitoli in italiano.

Ma qual è l’identikit di chi segue i Dizi nel nostro Paese? Com’è evidente dalle statistiche anagrafiche, non si tratta di ragazzine, ma di donne: madri di famiglia, studentesse, professioniste e anche nonne che ogni giorno fondano blog e fan club, si confrontano sui forum, postano foto dei loro idoli e sognano un viaggio a Istanbul per incontrarli sul set di queste serie «aspirazionali»; tanto desiderose di apparire vicine all’Occidente, quanto lontane da questo nella realtà.

Le protagoniste di molti Dizi (tra le più famose, oltre a Demet Özdemir e Özge Özacar c’è Özge Gürel, che attualmente sta girando in Turchia una nuova serie con Can Yaman) portano sullo schermo una tipologia di donna apparentemente libera di scegliere e di raggiungere successi professionali; nei fatti, tutavia, propongono uno stile di vita e soprattutto di relazioni, molto tradizionali, legate a doppio filo con la famiglia cui si deve assoluto e acritico rispetto.

Inoltre, nessuna effusione in pubblico, rari e casti baci e la tensione amorosa che prende forma soltano negli sguardi dei protagonisti – ovviamente bellissimi – con cui viene giocato tutto l’erotismo, chiave di volta di tanto favore del pubblico. È un capovolgimento significativo rispetto a certa sessualità estremizzata, come quella vista in 50 sfumature di grigio, che ha trionfato fino a qualche anno fa.

Antonella, 45 anni, è la fondatrice della pagina fan «Kotu-Kral-Yaman» dedicata al più bell’attore del genere, e spiega così la sua infatuazione: «Quelle che vediamo in queste serie, sono tradizioni di un Paese che, per quanto possano essere esagerate e diverse dalle nostre, vanno rispettate. Noi donne occidentali, abbiamo perso un po’ il senso del sogno e del corteggiamento, vogliamo tutto e subito anche nei rapporti d’amore, dove però il sesso toglie il romanticismo alle storie. In queste serie, invece, c’è ancora il senso del pudore e il rispetto per la famiglia. La donna viene vista come qualcosa di speciale, da amare sopra ogni cosa. Questo è ciò che adorano le fan di tutte le età».

Un principe azzurro rivisto e corretto, dunque. Ma anche una contraddizione, se si considera che in Turchia il film più visto è il soft porno 365 giorni con l’italiano Michele Morrone, unica «esportazione» nostrana in un Paese che ci adora in quanto realtà a cui aspirare, ma che difficilmente esalta qualcosa che non sia nazionale.

Ecco che, tra i protagonisti maschili, s’impone praticamente senza rivali Can Yaman, l’attore turco più amato del momento. Lo apprezza anche Ferzan Özpetek che in lui ha visto «quel qualcosa in più» e che, dicono alcune indiscrezioni, lo vorrebbe nella serie tratta dal suo film Le Fate ignoranti che sarà prodotta da Fox Italia. Andrea Di Carlo – il responsabile italiano del management di Can Yaman in precedenza aveva fatto conoscere anche un altro attore, Serkan Çayoglu, protagonista della serie Bitter Sweet – commenta: «Yaman ha una “fan base” molto solida, donne intorno ai 45/50 anni affascinate dal suo personaggio romantico e che, per seguirlo, sono disposte anche a spendere molti soldi. Oltre a essere bello ha dei principi, attento e rigoroso com’è nella vita e nel lavoro. E questo fa parte della cultura turca, un po’ come il fatto di non bere a tavola».

In Turchia, però, la grande stampa ha spesso attaccato l’attore: tuttavia nulla può contro il suo successo planetario se non accusarlo, paradossalmente, di essere troppo occidentalizzato o fraintendere ogni sua dichiarazione. Come quando ha osato pronunciare la parola «libido» per spiegare la chimica che si era creata con una delle sue partner televisive. Aggiunge Di Carlo: «Di fatto Yaman, come la maggior parte dei turchi, ama l’Italia, che viene considerata una sorta di faro. Probabilmente quello che, 30 anni fa, al di là dell’Adriatico, appariva agli albanesi». 

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