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Shopping online, il lato oscuro dei resi

Shopping online, il lato oscuro dei resi

C’è chi acquista un capo d’abbigliamento, lo indossa e poi lo restituisce «a stretto giro». Chi si fa recapitare tante taglie e tutti i colori di uno stesso modello. Benvenuti nel mondo degli acquirenti seriali di prodotti che stanno causando un grave danno economico ad aziende e piattaforme online. Che corrono ai ripari in questo modo.

La «bibbia della moda», Vogue, l’ha definito wardrobing, che tradotto assomiglia a «guardarobare», ossia il fenomeno di comprare online un abito per indossarlo una sola volta, magari per un evento particolare o semplicemente per un paio di selfie da postare sui social, nascondendo il cartellino e poi restituirlo per avere i soldi indietro. Se pensate che sia folle, provate a fare una ricognizione su Instagram e vi imbatterete in video o foto di chi porta capi all’ultima moda ostentando un guardaroba illimitato.

Che dire poi dei video che spopolano su TikTok (#KeepOrReturn), in cui sedicenti influencer provano ciò che hanno acquistato in modo seriale sul web e chiedono al loro pubblico di aiutarli nella scelta, se tenerlo o mandarlo indietro, accumulando una montagna di resi. Su internet si riversano anche gli indecisi cronici: per intendersi, coloro che stazionano ore nei camerini facendo smontare il negozio per poi non acquistare nulla e che hanno trovato nell’e-commerce il loro habitat ideale. Sono capaci di ordinare tutti i colori in catalogo di un medesimo abito o svariate taglie, per poi, magari, rispedire tutto al mittente.

Naturalmente ci sono i consumatori in buona fede che ordinano un paio di capi alla ricerca della taglia giusta. Lo shopping online offre una comodità estrema ma priva dell’esperienza fisica: non si può toccare, provare, valutare concretamente un prodotto nonostante i molti strumenti proposti dalle piattaforme, i consigli personalizzati sulle taglie, la possibilità di visualizzare in 3D un prodotto. Così l’acquisto spesso diventa una «scommessa» legata al prezzo, specialmente su piattaforme quali Privalia, Saldi Privati o Privé by Zalando, dove i ribassi sono accattivanti.
Attualmente su TikTok ci sono almeno 8,3 milioni di video dedicati solo agli oggetti acquistati su Amazon e 1,2 milioni dedicati a quelli acquistati su Shein, la piattaforma cinese di e-commerce specializzata nel fast fashion, la moda usa-e-getta.

I resi, dapprima una sorta di «acchiappa clienti», una strategia di marketing dei grandi portali online, adesso si sono trasformati in un costo esorbitante oltre che nei maggiori responsabili dell’inquinamento ambientale. Infatti, molti degli abiti, delle scarpe o accessori oltre a oggetti di ogni genere, che vengono restituiti, non torna in vendita (i costi per inserirli di nuovo nel circuito sono esorbitanti tra logistica, trasporto, eventuale sanificazione e reimballaggio) ma vengono eliminati, andando ad accrescere le discariche di tutto il mondo.

Secondo un report di Optoro, una società di logistica «inversa» che collabora con rivenditori e produttori per gestire la merce restituita, soltanto negli Stati Uniti i resi generano oltre 15 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, mentre circa 2,6 milioni di tonnellate di questi prodotti finiscono direttamente in discarica. A livello globale, si stima che oltre il 30 per cento degli ordini online venga dato indietro, con punte del 50 per cento nel settore fashion, in base a un’indagine di Statista. E questo non perché il capo sia difettoso o di una taglia diversa, ma semplicemente perché non piace. O ancora peggio, non è necessario. Sempre la rivista Vogue ha definito la tendenza all’acquisto seriale, come «haul culture», la cultura del bottino.

In Italia, nel primo semestre del 2024, il tasso medio di resi è stato più basso che in altri Paesi, attestandosi al 5,9 per cento, ma con forti differenze tra categorie: moda e calzature toccano persino al 25 per cento, mentre elettronica e arredamento si attestano sotto il 10 per cento. In Francia, invece, si parla del 24 per cento, in Germania del 44 per cento e in Svizzera del 45 per cento. Naturalmente il fenomeno impatta sui bilanci delle aziende.
Il 10 per cento dei prodotti riutilizzati richiede sanificazione e imballaggio con meno del 55 per cento di essi venduti a prezzo pieno, a causa dei tempi di restituzione che fanno finire abiti e oggetti in saldo perché ormai completamente fuori stagione.

Cosa dice la legge? Nelle vendite online spesso si usano i termini «reso» e «recesso» come se fossero sinonimi, ma a livello legale c’è una differenza. Il recesso, tutelato dal Codice del Consumo, consente al cliente di restituire un prodotto entro 14 giorni dalla consegna, senza dover fornire alcuna giustificazione. Dalla ricezione della merce restituita, il venditore ha 14 giorni per il rimborso. In alcuni casi il diritto di recesso non è applicabile come per i beni digitali già scaricati, i prodotti personalizzati, quelli deperibili. Le spese di restituzione sono a carico del consumatore a meno che il venditore non le abbia offerte espressamente in modo gratuito.

Nel reso, invece, è il venditore a stabilire i tempi di restituzione e questo fenomeno compulsivo ha imposto alle aziende di ripensare un modello diventato insostenibile. I brand di Inditex (tra cui spicca il campione del fast fashion Zara), Uniqlo, H&M e Asos hanno modificato le loro regole, testando la restituzione a pagamento.
Uniqlo, infatti, applica un costo di 2,95 euro per la restituzione dell’ordine che va effettuato entro 30 giorni, Zara fa pagare 4,95 euro per il ritiro a domicilio mentre, depositando il pacco presso un punto di consegna, la cifra è di 2,95 euro.
Per H&M il reso in negozio è gratuito, mentre si pagano 2,99 euro (tranne per gli iscritti a H&M Members) in un punto di ritiro e 4,95 euro se a domicilio. Amazon generalmente consente 30 giorni per restituire i prodotti venduti e spediti direttamente dalla piattaforma. In alcuni casi, i resi sono gratuiti ma, per categorie quali elettronica e prodotti ingombranti, possono essere applicate condizioni specifiche o trattenute parziali.
Per comportamenti sospetti di abusi sistematici, Amazon può persino sospendere gli account.

Zalando ha ridotto il tempo di restituzione gratuito da 100 a 30 giorni. Imporre vincoli stringenti è però rischioso. Secondo gli esperti di Infobip, una piattaforma globale di comunicazione cloud, vietare le restituzioni ripetute può ritorcersi contro il business. Una politica troppo rigida rischia di danneggiare la reputazione del brand e spingere i clienti verso la concorrenza. Le aziende stanno quindi puntando su descrizioni dettagliate, immagini realistiche, tabelle delle taglie interattive, in modo da evitare gli errori negli acquisti. Una portavoce di Shein spiega a Panorama la loro strategia: «Offriamo ai clienti tutti gli strumenti per effettuare acquisti consapevoli, grazie a informazioni particolareggiate su materiali e taglie a disposizione sull’app Shein. Per le taglie forniamo indicazioni precise sulla vestibilità e sulle misure dei capi, mentre le recensioni dei clienti rappresentano una preziosa fonte di suggerimenti e testimonianze». Poi sottolinea che il loro tasso di reso «è inferiore alla media del settore».

Stefano Zerbi, portavoce del coordinamento delle associazioni dei consumatori Codacons, indica le criticità a cui sono esposte imprese e acquirenti. «Le piccole realtà di e-commerce si trovano ad affrontare costi importanti, avendo poi poche possibilità di reimmettere sul mercato la merce che viene restituita. Ma al tempo stesso viene danneggiato chi compra, che in buona fede acquista più prodotti nell’incertezza della taglia e che ora deve affrontare regole più stringenti spesso difficili da osservare, come la presenza dell’imballaggio intatto».
Benvenuti dunque nel variegato mondo dei resi, tra piccole furbizie e trappole del consumo.

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