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«La ricerca? Andate in Arabia Saudita dove soldi e opportunità non finiscono mai»

«La ricerca? Andate in Arabia Saudita dove soldi e opportunità non finiscono mai»

I ricercatori italiani rimasti senza fondi e con un futuro incerto, come hanno dimostrato i nostri articoli sul Cnr, spesso fuggono all’estero per guadagnare stipendi migliori ma soprattutto per portare avanti ricerche che in Italia non potrebbero nemmeno iniziare. Ma chi crede che la meta preferita siano gli Stati Uniti o altri paesi occidentali si sbaglia di grosso.


Tra le mete più ambite dal mondo accademico c’è il centro di ricerca KAUST in Arabia Saudita a 90 Km da Jeddah e a 700 km da Riad la capitale, che rappresenta uno dei poli più importanti per la Ricerca al mondo.

Il King Abdullah University of Science and Technology (KAUST) è un campus universitario con un capitale di 32 miliardi di dollari. Kaust è nato nel 2007 dal progetto del sovrano Abdullah Bin Abdulaziz Al Saud che ha investito 20 miliardi di dollari per attirare ricercatori da tutto il mondo e ad oggi é secondo solo ad Harward. L’obiettivo principale del centro è trovare fonti energetiche rinnovabili, desert agriculture ossia colture idroponiche in grado di sopravvivere nel deserto e la desanilizzazione dell’acqua.

Il centro ospita 8mila dipendenti tra cui i ricercatori di ben 75 nazionalità di cui circa 1/4 sauditi, cinesi, indiani, americani, europei, australiani e mediorientali. Al KAUST ad oggi ci sono ben 100 ricercatori e studenti italiani con stipendi che partono dai 4200 dollari al mese. I professori associati guadagnano circa 15mila dollari al mese mentre i professori di ruolo circa 25-30mila dollari contro le 1200 euro al mese per un dottorato in Italia.
Il centro è un’oasi verde in mezzo al nulla con villette, negozi, centri sportivi, asili e cinema. I dipartimenti di ricerca sono tre: biologia e scienze ambientali, informatica.

Corrado Calì, del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino ed all’istituto di Neuroscienze della fondazione Ottolenghi (NICO) ha lavorato dal 2013 al 2018 al Kaust

Cosa l’ha spinta ad andare in Arabia per la sua attività di ricerca?

«Prima di partire per Kaust lavoravo a Losanna, in Svizzera, dove mi sono dottorato. Sono venuto a conoscenza di Kaust perché all’epoca, nel 2012 lavoravo al politecnico di Losanna ed ero in contatto con il BlueBrainProject, un progetto da cui é nato lo Human Brain Project, ed avevano attivato una collaborazione con Kaust col laboratorio di Pierre Magistretti, uno scienziato italo-svizzero esperto di Metabolismo. Dopo aver parlato con lui della possibilità di lavorare in collaborazione fra Arabia Saudita e Svizzera sono stato subito entusiasta ed ho colto l’opportunità al volo, dato che amo viaggiare ed ho ritenuto che l’opportunità di lavorare con Pierre Magistretti mi avrebbe sicuramente dato la possibilità di dare una grossa spinta alla mia carriera».

Che differenza c’è in termini di mezzi, possibilità e compensi tra la ricerca in Arabia e quella in Italia?

«Gli investimenti dell’Arabia Saudita al Kaust sono decisamente impressionanti. Quando sono arrivato, nel 2013, l’università aveva circa 4 anni e l’offerta economica teneva certamente in conto il “rischio”di spostarsi verso un istituto nuovo, dove molti dei laboratori erano ancora in fase di startup, nonché in medio oriente. Nell’ultimo anno io guadagnavo circa 110 mila dollari. Non solo. Avevo altri benefit: mi pagavano anche casa, assicurazione, e molti dei viaggi di famiglia e non ci sono tasse. Ma oltre le differenze sullo stipendio, i mezzi tecnici e tecnologici a disposizione, e le possibilità di collaborazione posso dire senza timore di iperbole che fossero praticamente infinite. Un esempio che posso fare, per quanto riguarda la mia ricerca, è che c’è stata la possibilità di sviluppare tecniche di analisi con la realtà virtuale; oggi sono sempre più comuni ed accessibili, ma nel 2013 eravamo davvero dei pionieri fortunati. Inoltre KAUST aveva investito parecchi milioni in una facility di visualizzazione, incluso un sistema “CAVE”, una stanza che permette di proiettare ologrammi – ce ne sono poche al mondo – Con l’utilizzo di questi sistemi mi sembrava quasi di poter fare della fantascienza. Il mio laboratorio era ben finanziato, ero sempre in giro».

Di quali progetti si é occupato all’interno del Kaust?

«Come ho detto, nel progetto principale sul quale ho lavorato, in collaborazione con il BlueBrainProject dell’EPFL, ho sviluppato dei modelli tridimensionali di alcuni tipi di cellule, gli astrociti, che forniscono “benzina” ai neuroni (sotto forma di lattato) ed i colleghi di BlueBrainProject hanno usato questi modelli per integrarli in una simulazione di un millimetro quadrato circa di corteccia cerebrale, per studiare in silico l’accoppiamento metabolico fra neuroni, atrocità ed i vasi sanguigni del cervello (la cosiddetta “neuro-glia-vasculature unit”). Abbiamo concluso da poco il progetto, e la settimana scorsa abbiamo fatto un workshop conclusivo dove abbiamo presentato i risultati di questa collaborazione, che ci ha fruttato almeno una decina di pubblicazioni. Purtroppo a causa della pandemia abbiamo dovuto farlo online, ma c’é stata comunque una grande partecipazione. Lavorando con Pierre Magistretti ho partecipato comunque a diversi progetti sul metabolismo, che in parte ho ereditato e sui quali continuo a lavorare qui all’università di Torino, dove sono rientrato da un anno, con i quali continuo a collaborare con lui. In particolare siamo interessati a come il metabolismo influenzi l’apprendo e la memoria, a livello cellulare e sintetico. Conosco anche un progetto del Kaust sui pomodori realizzato combinando il Dna di certi pomodori resistenti con poca acqua con quelli normali. Alla startup del ricercatore australiano che ci ha lavorato sono stato assegnati 6 milioni di dollari».

Quanti Italiani ci sono e come vengono assunti?

«I numeri cambiano velocemente, ma quando sono partito c’erano più di un centinaio di italiani, una bella compagine. In generale ci si conosce tramite feste al consolato di Jeddah, e normalmente il console é sempre interessato a conoscerci ed avere contatti con noi. Kaust recluta in molti modi – per esempio durante le conferenze internazionali, presentando l’università a degli stand, o tramite degli “ambassador” – professori che vanno a presentare Kaust presso altre università. Ci sono moltissimi programmi di scambio per studenti – anche progetti estivi – e se poi gli studenti sono interessati Kaust si attiva per tenerli. Essendoci parecchi faculty italiani che mantengono buoni rapporti con le università di origine, questo meccanismo funziona decisamente bene».

La ricerca al Kaust su cosa é proiettata. Ci sono progetti italiani importanti portati avanti nel centro?

«Ho parlato di Neuroscienze, ma in realtà Kaust é stato progettato per diventare il MIT del medio oriente – quindi é molto orientata su progetti ingegneristici e computazionali (uno dei supercomputer più potenti del pianeta si trova a KAUST, Shaheen II). Ci sono parecchi progetti italiani portati avanti nel centro. Mi viene in mente per esempio il centro di Epigenetica, diretto al prof.Valerio Orlando, i progetti di chimica computazionali guidati dal prof. Luigi Cavallo, le ricerche su materiali innovativi del prof. Andrea Fratalocchi, o gli studi applicati di modelli di fluidodinamica del prof. Matteo Parsani che vengono utilizzati dal team McLaren di Formula 1».

Ma non tutti i ricercatori hanno una buona opinione del centro Kaust: “Il problema – ci racconta un altro ricercatore che ha lavorato al Kaust e che ora si trova in un’altra nazione – è che non si può fare ricerca libera in un paese non libero. Ci sono spie ad ogni angolo e gli studenti quando ci sono stato erano terrorizzati a parlare con me. É una società molto particolare, con un grosso problema di corruzione. L’intera nazione è di proprietà privata della famiglia reale. Ci vuole davvero un buono stomaco per lavorare li».

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