Oggi è l’Artico l’obiettivo geopolitico più ambito dalle superpotenze del pianeta. Man mano che la sua superficie gelata si scioglie, causa riscaldamento globale, diventano sfruttabili risorse preziose come gas, petrolio e minerali strategici. Compresa l’acqua contenuta negli iceberg. E ogni nazione (anche chi è lontano dal Circolo polare) avanza diritti sulle «terre estreme», in una competizione sempre più agguerrita.
In attesa di sbarcare nuovamente sulla Luna, è rimasto solo l’Artico da colonizzare per placare gli appetiti delle nazioni più importanti del pianeta. La battaglia è serrata e si combatte con ogni mezzo. Già, perché questo territorio smisurato (oltre 16 milioni di chilometri quadrati) che va liberandosi dai ghiacci a causa del riscaldamento globale – ed è dunque sempre più accessibile – contiene le più strategiche risorse minerali, indispensabili allo sviluppo della scienza e della tecnologia: terre rare, zolfo, rame, fosforo, niobio, palladio, nichel, cobalto, bauxite, platino, oro. Tutti elementi che potrebbero fare la fortuna dei «conquistadores» del terzo millennio, colmando la scarsità di risorse prelevate dalle grandi potenze nel resto del mondo.
Già oggi il Circolo polare artico annovera alcune delle più promettenti industrie estrattive: la miniera di Red Dog (zinco) in Alaska, quella di diamanti Diavik nei Territori del Nordovest, in Canada; e quella di Sveagruva nelle isole Svalbard, arcipelago dove si trova anche la miniera di carbone più a nord del pianeta, sull’isola di Spitsbergen. Mentre si stanno approntando le miniere di ferro di Baffinland, nel Nunavut canadese, e quella di Isua in Groenlandia. Ma il business più urgente riguarda ancora la ricerca di petrolio e gas: lo United States Geological Survey stima che ben il 22 per cento degli idrocarburi mondiali potrebbe essere intrappolato nei territori artici. Ed ecco la vera ragione della corsa ai ghiacci.
Sono sette le nazioni del mondo che ufficialmente confinano con le terre emerse, a nord del Circolo polare: Canada, Stati Uniti, Russia, Finlandia, Svezia, Norvegia e, attraverso la Groenlandia, la Danimarca. Per la sua posizione, anche l’Islanda è considerata nazione artica. Mentre la Cina – che si è autodichiarata uno «Stato vicino all’Artico» – scalpita per entrare nel «club dei ghiacci», in virtù dell’assunto secondo cui gli eventi che si verificano nell’estremo Nord avrebbero degli effetti pericolosi sui suoi territori continentali in termini di clima, economia e società.
Pechino è attualmente confinata al semplice ruolo di osservatore permanente nel Consiglio artico – ossia l’organo di diritto internazionale che tutela l’ambiente, le risorse e le comunità artiche – ma pretende di essere sempre più coinvolta negli aspetti decisionali che riguardano la regione. E per questo investe miliardi di yuan per accaparrarsi il maggior numero di accordi bilaterali con i sette membri originali.
La Cina, in tal senso, oggi guarda soprattutto alle miniere di zinco e alle terre rare per le proprie industrie automobilistiche e tecnologiche. Ma punta pure alle possibilità offerte dalla progressiva riduzione dei ghiacci, che ha portato alla liberazione di vaste zone pescose di mare: questo ha ingigantito i suoi commerci ittici – e anche quelli del Giappone – centrali per le rispettive economie e per le stesse diete nazionali. Già oggi, per esempio, le acque islandesi si sono popolate di pesci molto richiesti e prima introvabili, come platessa, rombo giallo, rana pescatrice e sgombro. Anche le industrie internazionali del lusso – della cosmesi, degli alcolici e delle acque minerali – hanno fiutato l’affare dello scioglimento delle zone gelate: estrarre dagli iceberg alla deriva le acque dolci «più pure e antiche al mondo» per rivenderle a prezzi esorbitanti. In Canada, per esempio, l’azienda Dyna Pro vende acqua a non meno di 10 euro a bottiglia, mentre a Terranova la Auk Island Winery commercia le sue bottiglie a un prezzo che supera i 60 euro. E le flotte di rompighiaccio cinesi si stanno attrezzando per non essere da meno.
La diplomazia di Pechino si riferisce alla regione artica e ai fondali oceanici ancora come «res nullius» – ovvero giuridicamente «proprietà di nessuno» – indicando queste aree come non governate dalla legge e senza possedimenti definiti. Dunque, un possibile oggetto di colonizzazione. E, in effetti, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare non aiuta a sciogliere il nodo se le principali rotte marittime dell’Artico siano in acque internazionali o si possano considerare territorio sovrano. Per questo, tutte le nazioni coinvolte puntano a espandere le loro zone economiche esclusive, comprendendo sezioni del fondale marino artico.
Canada, Danimarca, Norvegia e Russia, per esempio, hanno rivendicazioni sovrapposte per quanto riguarda i diritti economici esclusivi sul Lomonosov Ridge: una dorsale sottomarina di oltre 1.800 chilometri che si estende attraverso l’oceano Artico e che si vorrebbe considerare parte della piattaforma continentale. In tale prospettiva, Canada e Russia affermano che i canali tra le isole al largo delle loro coste settentrionali sono «acque interne» e possono dunque essere governate come territorio sovrano. Tra gli obiettivi: investimenti in cavi sottomarini e pale eoliche da piazzare nelle sue acque. Finora, la Cina non ha violato le norme del diritto adottando misure unilaterali per estrarre risorse artiche, e ha scelto invece di collaborare con potenze artiche come Russia e Groenlandia in singoli progetti minerari e di perforazione. I leader comunisti, tuttavia, continuando a ritenere la regione libera dall’attività economica, hanno aperto stazioni di ricerca nell’Artico e oggi cercano di ottenere il controllo sulle rotte polari attraverso massicci investimenti in infrastrutture.
«È il Polar Research Institute of China di Shanghai a supervisionare il programma di ricerca artica» afferma l’ingegnere minerario Giovanni Brussato. «Ufficialmente si occupa di ricerche e monitoraggio sul ghiaccio marino e l’atmosfera, per la tutela dell’ambiente. Ma si tratta di un ossimoro concettuale: il più grande emettitore di gas serra a livello globale che cerca di proiettare la percezione di essere una nazione preoccupata e responsabile nella regione artica». È allora in questo senso che va letta la creazione nel 2018 di una «Via della Seta Polare», divenuta obiettivo nazionale per sviluppare la rotta del Mare del Nord con un «passaggio economico blu» che colleghi la Cina e l’Europa attraverso l’oceano Artico. Una mossa assai sgradita agli americani. Ma soprattutto ai russi, che per primi hanno indicato quel territorio come «riserva strategica per il ventunesimo secolo».
Mosca ha messo in guardia da lunga data contro un maggiore coinvolgimento dei cinesi nel Polo Nord, contrastando l’accettazione dello status di osservatore permanente nel Consiglio artico, ottenuta da Pechino nel 2013 (le conseguenze della crisi ucraina nel 2014 e quelle dell’attuale conflitto, tuttavia, hanno ammorbidito tale posizione). Il Cremlino ha sempre voluto farsi «dominus» artico, per espandere la produzione in proprio di terre rare e diminuire così il monopolio globale cinese. Del resto, quella russa corrisponde al 53 per cento della costa affacciata sull’oceano Artico e qui vivono già stabilmente circa due milioni di cittadini russi, intorno alle sette basi militari disseminate su isole e penisole del Circolo polare, dove sono stati posizionati sistemi radar e di difesa missilistica, e dove risiede anche una flotta sottomarina nucleare (nella penisola di Kola).
Inoltre, come rilevato dal settimanale New Scientist, «il 90 per cento dei depositi di nichel e cobalto, il 60 per cento di quelli di rame e il 96 per cento di quelli di platino della Russia si trovano proprio nel Circolo polare artico». E ancora. Circa un quarto dei diamanti venduti nel mondo proviene dalla Repubblica di Sakha, o Jacuzia: un territorio della Siberia orientale che si trova per il 40 per cento nel Circolo polare artico ed è ricco di kimberlite, roccia porosa che racchiude appunto diamanti purissimi.
Gli Stati Uniti, invece, a lungo non hanno sviluppato una propria dottrina sull’identità artica. Solo nel 2013, durante la presidenza di Barack Obama, è stato redatto il primo documento strategico statunitense sul tema. In esso era previsto un piano per il controllo di accesso e uscita dall’oceano Artico attraverso una forte presenza navale nello Stretto di Bering, e la cooperazione militare con Groenlandia, Islanda e Regno Unito nel mare di Ciukci, tra l’estremo lembo della Siberia e l’Alaska.
Adesso, con la guerra in Ucraina e l’aumento delle tensioni con Russia e Cina, la segreteria di Stato ha impresso un’accelerazione, annunciando il potenziamento dello scudo di difesa (una rete di radar costruiti dagli anni Cinquanta a Cape Kiglapait, nella provincia canadese del Labrador) e la creazione della nuova carica di «ambasciatore nell’Artico». Una doppia mossa che, da un lato, punta ad aumentare la pressione diplomatica nei confronti di Mosca e Pechino; dall’altro, sembra voler chiudere la lunga stagione inaugurata dall’appena scomparso Michail Gorbaciov nel 1987, quando definì l’Artico una «zona di pace». Sembra un secolo fa.
