Con ghiacci e iceberg che si sciolgono sempre più velocemente, che fine faranno gli iconici abitanti dell’estremo Nord? Si inabisseranno nelle acque artiche per mancanza di banchisa? Moriranno per scarsità di prede? La scienza sta cercando di scoprirlo. Prima che sia troppo tardi.
Una domanda che molti si pongono è che fine faranno gli orsi polari se, come si prevede, fra il 2030 e il 2060 avremo la prima estate senza ghiaccio nel Mar Glaciale Artico. Pur senza cedere all’immagine suggestiva ma stereotipata che vede l’ultimo orso su un piccolo iceberg in scioglimento, occorre ricordare che, con il progressivo assottigliamento della banchisa polare, questi animali saranno costretti ad affrontare spostamenti in mare aperto sempre più lunghi e frequenti. E se anche l’habitat di questa specie comprende parti di Canada, Stati Uniti (Alaska), Groenlandia, Islanda, Norvegia e Russia, la sparizione dei ghiacci sulla terraferma nella stagione estiva non sarà compatibile con i tempi necessari alla selezione naturale per un adattamento.
Dunque l’orso polare è spacciato? Nella letteratura scientifica si stanno moltiplicando gli studi nel tentativo di fornire risposte e immaginare soluzioni. Una recente ricerca della York University, in Canada, ha rivelato che laddove il ghiaccio marino diminuisce, gli orsi polari cacciano di meno e variano il tipo di prede. Se, nelle zone coperte dall’indagine, le principali fonti di cibo erano le cosiddette foche degli anelli e le foche barbate, ora le carcasse di balene artiche prendendo sempre più il loro posto. Infatti, come dimostra un altro recente studio dell’Università di Washington, man mano che l’Artico si riscalda, le orche, superpredatori all’apice della catena alimentare, penetrano in zone un tempo a loro inaccessibili, seminando la morte tra cetacei e altri animali. Gli orsi polari, sempre più in difficoltà, si stanno adattando nutrendosi dei loro resti oltre a variare la dieta in base alla redistribuzione delle prede usuali.
La rivista Nature inoltre predice che, al ritmo attuale di diminuzione della superficie della banchisa del 14 per cento per decade, la popolazione di questi mammiferi scenderà dai circa 30 mila individui attuali a meno di 4 mila entro il 2060. Oltre quella data, nessuno sa che cosa esattamente accadrà. Di sicuro gli scienziati concordano sul fatto che emergeranno presto anomalie genetiche dovute a incroci tra consanguinei in popolazioni costrette a vivere in territori ristretti. Da più parti vengono proposte strategie per salvare questi iconici animali, simbolo di un mondo che disperatamente resiste al riscaldamento globale.
Qualche tempo fa il settimanale inglese New Scientists ospitava un articolo sulla proposta di trasportare orsi dall’Artico al Polo Sud. Veniva fatto notare che, se attuata, questa soluzione porterebbe alla distruzione di un intero ecosistema e alla fine la morte degli stessi orsi polari. Questi ultimi decimerebbero prima tutti i pinguini, che al momento non hanno predatori, e poi via via tutte le foche, anch’esse non minacciate da altri animali. Altri scienziati suggeriscono di piazzare banchise artificiali nelle zone un tempo occupate dal ghiaccio. Ma anche questa strategia sarebbe difficilmente realizzabile perché le alghe che nutrono le foche, cibo per gli orsi, crescono solo nel vero ghiaccio. Se i pessimisti prevedono la costruzione di una sorta di santuario degli orsi polari, che vivrebbero in cattività, altri, più realisti, si aspettano che gli ultimi esemplari resterebbero in vita a nord del Canada, in quella vasta insenatura dell’oceano Artico chiamata Norwegian Bay.
A quel punto occorrerebbe concentrare gli sforzi per tenerli in vita il più a lungo possibile: servirebbe un numero di esemplari non inferiore a 5 mila, così da prevenire patologie genetiche favorite da incroci tra consanguinei. Il cibo verrebbe fornito con elicotteri per evitare il rischio che si spingano alla ricerca di prede verso sud, seminando il terrore tra gli insediamenti umani. Costo stimato per il governo canadese: circa due milioni di dollari. L’ultima ratio vede l’uso di madri grizzly surrogate: dovesse la popolazione di orsi polari scendere sotto un certo livello, gli scienziati potrebbero congelare spermatozoi e uova per creare embrioni da impiantare in orsi bruni.
Sul loro destino Panorama ha chiesto un parere a uno dei più grandi esperti canadesi di orsi polari, Gregory Thiemann della facoltà del Cambiamento ambientale e urbano all’Università di York: «È improbabile che si estinguano del tutto, almeno finché ci sarà ghiaccio nella stagione invernale in qualche posto. Certo che, se nel periodo estivo mancherà il ghiaccio, vedremo un crollo spaventoso della loro popolazione, associato a una contrazione dell’habitat». Insomma ce ne saranno molti meno, e solo in alcune regioni isolate. «Già adesso» prosegue Thiemann «in molte zone d’estate manca il ghiaccio. Gli orsi migrano allora sulla terraferma dove di fatto restano digiuni e sopravvivono grazie alle riserve di grasso. I problemi arriveranno quando il riscaldamento globale li costringerà a digiunare per 180 giorni. A quel punto sì, assisteremmo a una mortalità su grande scala. Quanto alle proposte avanzate da vari colleghi, a me paiono francamente insensate. Dobbiamo tenere conto che l’Artico è enorme e qualunque soluzione, chiamiamola tecnologica, di rimpiazzare il ghiaccio è impossibile. Gli orsi polari sono come le altre specie: hanno bisogno del loro habitat. Se glielo distruggiamo, si ridurranno inesorabilmente. La verità è che non abbiamo scampo: dobbiamo ridurre le emissioni globali. Non c’è altro da fare».
E su questo fronte, a che punto siamo? Gli scienziati dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) prevedono due scenari per i prossimi decenni: le temperature medie globali rimangono inferiori a due gradi Celsius, oppure li superano.
Nessuna delle due ipotesi è incoraggiante: nel primo caso il ghiaccio si stabilizzerà nell’ultima parte del secolo, con i livelli del 2090 che somiglieranno a quelli del 2050. Nel secondo, entro fine secolo non vedremo più ghiaccio in estate. L’obiettivo principale della conferenza Cop26 di Glasgow era limitare l’aumento a 1,5 gradi. Obiettivo non raggiunto. Tutto dipenderà allora da cosa verrà deciso nel 2022 nella conferenza Cop27 e dalla capacità di implementare gli impegni già presi.
Intanto, ciò che i modelli predicono è un incremento delle temperature medie tra i 2,5 e i 2,7 gradi a fine secolo, se non ci saranno drastiche riduzioni dei gas serra entro il 2030. La partita è ancora aperta, ma sono pochi quelli che scommetterebbero sugli orsi polari.