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Richeldi: «Quello strano pacco arrivato da Wuhan»

Richeldi: «Quello strano pacco arrivato da Wuhan»

Poco prima che l’Italia precipitasse nell’incubo Covid, Luca Richeldi, pneumologo e membro dell’allora Cts, ricevette a casa una scatola, dal contenuto assai sconcertante, inviata da un collega cinese… Oggi, dopo due anni, ricorda in un libro – e in questa intervista – gli inizi drammatici, gli errori commessi (ieri e oggi), i progressi e i limiti della scienza.


Tra Natale e Capodanno 2019, in uno storico palazzo di Roma, il medico e pneumologo del Policlinico Gemelli Luca Richeldi si sente chiedere da un’elegante signora: «Professore, che mi dice di tutte queste polmoniti che stanno dilagando in Cina?». Preso un po’ alla sprovvista, Richeldi risponde: «A quali polmoniti si riferisce esattamente? Nel nostro mestiere ci si deve basare sui dati, sui numeri…».

Il discorso muore lì, ma il dubbio si fa strada. Nei giorni seguenti Richeldi comincia a perlustrare internet, ma trova solo qualche vaga notizia su «casi anomali di influenza» in Asia. Così, decide di mandare una mail a un collega cinese, il dottor F., eccellente pneumologo, conosciuto in giro per congressi. La risposta è rassicurante: tutto tranquillo, nessun problema. «A proposito, ora che sei tornato dall’Inghilterra» chiede il collega «dove abiti a Roma?». Qualche giorno dopo a casa Richeldi arriva un pacco, assai leggero, proveniente dalla Cina. Dentro, centinaia di sottili confezioni sigillate: mascherine Ffp2. «Il dottor F. stava cercando di mandarmi l’unico segnale che avrebbe potuto mettermi in allarme. Mascherina, dunque infezione respiratoria. Mascherina, dunque protezione individuale e collettiva. Tante mascherine» racconta Richeldi nel libro Il tesoro leggero – l’avventura dei polmoni dalla pandemia al futuro della scienza (Solferino). «Mi aveva mandato un messaggio dall’inferno.Io, come tutti noi, mi ci sarei ritrovato di lì a poco».

Un messaggio in codice quello del medico cinese?

Avevo chiesto informazioni a lui, che conoscevo bene, in quanto primario di pneumologia in un grande ospedale in quelle zone cinesi colpite dai casi di polmonite. Quando ho aperto lo scatolone sono rimasto molto sconcertato. Una strategia di comunicazione criptica, probabilmente non poteva o non voleva sbilanciarsi per iscritto. E immagino si sia comunque preso un certo rischio, anche se l’ha spedito senza commenti.

L’ha più sentito, da allora?

No, spero un giorno di rivederlo. E allora gli chiederò di raccontarmi quella storia.

Dopo due anni di pandemia, come si sente lei adesso, sconfortato, ottimista?

Come un medico che ha vissuto un momento storico unico, bisogna andare indietro alla pandemia di Spagnola per sperimentare qualcosa del genere. Ma ci siamo trovati di fronte anche a grandi successi scientifici.

Indubbiamente. Però nell’inverno 2020 tutti dicevano «dopo la primavera ce la lasceremo alle spalle», invece…

Chiaro che il futuro non è predicibile, ma guardiamo cosa è successo nelle pandemie precedenti: o sono state eradicate dai vaccini, come il vaiolo, o sono diventate endemiche, come l’influenza o l’Aids, o si sono trasformati in virus con cui convivere. Ed è ciò che sta accadendo ora: di fronte a difese immunitarie incrementate, con i vaccini e anche con l’immunità acquisita dalla malattia, il virus sta andando verso l’attenuazione.

Ecco, siamo così sicuri che Omicron sia meno «cattiva»?

Non ne siamo certi in assoluto, ma credo che sia un dato abbastanza solido. Perché viene da esperimenti di laboratorio, anche in modelli animali, e pure da un’osservazione: oggi abbiamo quasi 10 volte più positivi di un anno fa ma i decessi sono tre volte meno. Certo, molto è merito dei vaccini e la situazione è complicata dal fatto che circolano due varianti, Delta e Omicron, in due popolazioni, vaccinati e non vaccinati, con persone vulnerabili all’interno di entrambe. Omicron si trasmette con molta più efficienza rispetto a Delta: può contagiare un’intera famiglia in una serata, ma sembra fare meno danni.

Oggi chi muore di Covid?

Le categorie più vulnerabili anche per altre malattie infettive: anziani, cardiopatici, obesi, immunodepressi… Ma negli ultimi due mesi, mentre l’incidenza maggiore di casi è fra i 20 e i 29 anni, i decessi sono più frequenti tra 80-89 anni. Cosa ci dice questo? Che il virus ancora adesso manda in terapia intensiva e al decesso anziani e vulnerabili.

Nel suo ospedale, per esempio, chi è ricoverato nelle intensive?

Prevalentemente non vaccinati o persone che hanno ricevuto due dosi e hanno co-morbidità. È vero che anche i giovani possono rischiare, ma le conseguenze estreme sono quasi sempre a carico delle fasce di età più avanzate.

E i bambini?

Hanno un rischio clinico molto ridotto, ma non è zero. Nei nostri reparti ce ne sono, per fortuna pochissimi quelli gravi. Ma il Bambin Gesù, per esempio, ne ha oltre 50 ricoverati: sono i più deboli, i prematuri, quelli che hanno altri problemi clinici associati.

Lei ha fatto parte del primo Cts. Che bilancio o autocritica fa? Quali errori sono stati commessi?

Fare errori è l’esperienza quotidiana di chiunque faccia il medico. In quel momento di conoscenze non ce n’erano, ed eravamo il primo Paese occidentale colpito. Un limite del Cts, che riuniva molte competenze diverse, è che era diventato anche un canale di comunicazione, nelle conferenze stampa, nel bolletino quotidiano. Questa cosa, parlo per me, è stata fatta in maniera molto impreparata. Noi, io almeno, non avevo alcuna esperienza di comunicazione al pubblico. Perché il medico dialoga in modo opposto: in privato e approfondendo. Lì si parlava a milioni di persone in tv e in maniera inevitabilmente non approfondita.

Cos’altro non ha funzionato?

La situazione era molto diversa rispetto a oggi. Le regioni più colpite contestavano le decisioni del governo, comunicavano i dati prima di quelli forniti a livello centrale. Questo creava problemi. Alcune mosse, sulle chiusure, sul passaggio delle zone a colori, avrebbero potuto essere più efficaci se gestite centralmente.

A cosa si riferisce di preciso?

Beh, quando alcune Regioni toglievano e mettevano le mascherine autonomamente o procedevano su strade diverse per conto loro. Una pandemia deve essere affrontata a livello centrale, addirittura sarebbe stato necessario un coordinamento europeo.

Le Regioni non dovrebbero essere autonome nella sanità?

In questo caso, in un’emergenza pubblica, l’autonomia delle Regioni ha dimostrato di essere un limite. Se la regionalizzazione sanitaria è portarice di alcuni aspetti razionali e positivi, perché certo il Friuli-Venezia Giulia non ha le stesse problematiche della Sicilia, le Regioni devono anche far parte di un sistema unico. Ancora oggi alcune sono più avanti di altre nella gestione domiciliare dei pazienti, una delle aree dove avremmo potuto e dovuto fare di più: nelle Usca, nel telemonitoraggio, nel sequenziamento delle varianti.

Altro tasto dolente, i medici di famiglia, troppo spesso «irraggiungibili», quasi mai disponibili a visitare a casa…

I medici di medicina generale oggi sono colleghi che lavorano in regime convenzionato con il Ssn, senza farne parte integrante. Coinvolgerli di più sembra una delle direzione in cui vadano le riforme del Pnrr. Troppi cittadini tuttora hanno come unico sbocco i Pronto soccorso. Che però sono stati pensati per rispondere alle emergenze, non per problematiche di un paziente che è a casa e non sa a chi rivolgersi.

Nel libro lei scrive che «agli esperti è stata data fiducia e poi è stata tolta». Perché è avvenuto?

Intanto gli esperti si sono trovati a rivestire ruoli che non sono quelli dello scienziato, abituato ad andare a congressi dove ci sono parere diversi e a discuterli. Ma in una situazione così spaventosa la gente voleva verità, certezze. Alcuni, tra cui anch’io, hanno cercato di rispondere quando invece su un virus nuovo e soprattutto in medicina, certezze assolute non ce ne sono, solo ipotesi che possono dimostrarsi vere o false. Poi ci sono state comunicazioni contraddittorie, posizioni contrastanti, polemiche inutili. Il che creava disorientamento.

A proposito di disorientamento, i vaccini sono stati vissuti, e presentati, come la pozione magica di Obelix, con il risultato che, con queste aspettative elevate, tanti ora si sentono «ingannati».

Si sapeva fin dall’inizio che il vaccino non è uno scudo fisico al virus, quello è la mascherina.

Però si è detto che era l’inizio della fine. Magari, ogni tanto, ammettere «ci siamo sbagliati»?

Ma scusi, come si fa a dire «ci siamo sbagliati» o che il vaccino non funziona quando l’80 per cento di chi è in terapia intensiva è tra i non vaccinati? Sa quante persone con tre dosi sono in quei reparti oggi? Glielo dico io. Pochissime.

Però il virus viaggia lo stesso.

Intanto Omicron è una variante nata in Sudafrica, in un Paese poco vaccinato e con molti immunodepressi. Delta è emersa in India, in situazione analoga. Dove il virus circola tanto, cambia.

Ma se i contagi corrono anche tra i vaccinati, il green pass a cosa serve?

Il green pass è mirato in primo luogo a proteggere il servizio sanitario: ovvero cerco di impedire che una persona vulnerabile e non vaccinata finisca nei guai. È una misura di sanità pubblica che tende a preservare gli ospedali, messi sotto pressione per tante patologie certo non sparite con il Covid.

In questa quarta ondata, meglio essere a scuola o dietro il pc di casa?

Meglio a scuola, onestamente.

E l’obbligo vaccinale per gli over 50?

Credo che, insieme al green pass rafforzato, sia una traiettoria giusta che sarà seguita anche da altri. Non lo ritengo una violazione dei diritti civili, va a salvaguardare la scuola, l’economia… Se noi oggi, con 200 mila nuovi casi al giorno, non avessimo i vaccini, saremmo in un lockdown totale con gli ospedali pieni di morti.

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