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L’elisir di lunga vita per cani (che avremo anche noi)

L’elisir di lunga     vita per     cani (che avremo anche noi)

Invecchiano come i loro padroni, con gli stessi acciacchi e malattie. Per questo è nato negli Stati Uniti il Dog Aging Project. Obiettivo: studiare come renderli più molto longevi. E poi utilizzare scoperte, farmaci e terapie sugli esseri umani.


Ce li portiamo a casa che hanno pochi mesi, un groviglio euforico di zampe scoordinate e di code sempre in movimento. In una manciata di anni ce li ritroviamo con il muso imbiancato e i passi rallentati dall’artrosi. Un invecchiamento oltraggiosamente veloce per chi possiede un amico a quattro zampe, che dopo 12-15 anni ci lascia così, perché sì.

Ma proprio la senescenza accelerata dei cani si sta rivelando, per la scienza, un’ottima occasione per studiare i processi di invecchiamento «in diretta» e tentare di prolungare non solo la loro aspettativa di vita ma anche la nostra. Così, lo scorso novembre, è partito negli Usa un vasto esperimento nell’ambito del Dog Aging Project: filone all’avanguardia nella ricerca non tanto dell’eterna giovinezza (utopia sterile, per quanto pervicace) bensì della possibilità di aggiungere anni in buona salute, evitando il lato più dark del tempo che passa. Nel caso dei cani, il progetto, con sede a Washington, punta a regalare loro da due a cinque anni in più. Traslato nella biologia degli umani, sarebbero quasi una ventina (non a caso l’iniziativa ha il sostegno economico del National Institute on Aging).

Ma cos’avranno in comune il loro destino e il nostro? Parecchio, in realtà. I cani condividono con noi le case, l’ambiente, lo stile di vita, i ritmi circadiani, in parte anche le abitudini alimentari; e un bel po’ di geni. I quattro zampe reclutati nell’esperimento, con l’entusiastica partecipazione dei proprietari, saranno circa 80 mila, di razza o meticci, provenienti da qualsiasi stato americano. L’idea è di somministrare ai volontari canini un farmaco specifico, la rapamicina: utilizzata da molti anni nei casi di trapianto per evitare il rischio di rigetto d’organo, in diversi studi sulla longevità sembra potenzialmente in grado di allungare l’aspettativa di vita, o almeno così pare in test di laboratorio.

Tammi Kaeberlein, uno degli scienziati dell’Università di Washington che lavora al Dog Aging Project, spiega che: «Abbiamo iniziato con uno studio “randomizzato”, di 10 settimane, su cani giovani trattati con rapamicina e l’altra metà con placebo. Ha dato buoni risultati: non ci sono stati effetti collaterali e abbiamo notato un miglioramento generale nelle funzioni cardiache. Adesso è partita la fase successiva, che durerà un anno: il Rapamycin Intervention Trial, su cani di almeno sei anni, per verificare eventuali benefici non solo sul cuore ma anche sulle capacità cognitive e l’attività fisica».

La molecola in questione è da anni, come si diceva, al centro dell’interesse dell’«anti-aging medicine», potenziale business miliardario. A quanto pare, rallenterebbe l’invecchiamento riducendo i livelli di una protena, la mTor, che regola la crescita delle cellule. Farmaco promettente, certo, ma su forme di esistenza per cui vivere un po’ di più non conta granché: se ne sono avvantaggiati, finora, lievito, vermi, mosche e topi. Che funzioni nei cani sarebbe un bel passo avanti, sia per chi ci passa insieme (se il cucciolo arriva a 13 anni) qualcosa come 5.110 giornate, sia per chi a malapena li sopporta. I cani infatti invecchiano in modo molto simile al nostro, con gli stessi acciacchi al cuore, alle articolazioni, con il rischio di demenza senile e di tumori. «Solo che lo fanno sette volte più velocemente» aggiunge Kaeberlein.

Il fatto che la clessidra canina scorra impetuosamente significa anche, per gli scienziati, identificare in modo più preciso quei fattori che innescano i processi di senescenza. Nelle persone, per esempio, è più difficile stabilire un rapporto causa-effetto fra qualcosa che esiste nell’ambiente, come un «interruttore endocrino» o una sostanza inquinante, e un maggiore rischio di malattia: fra l’uno e l’altro possono passare anche 30 anni. Nei cani, lo si capisce nel giro di qualche anno.

«Gli animali domestici sono, per così dire, potenziali sentinelle che ci avvertono della presenza di nemici ambientali che incidono sul nostro processo di invecchiamento» ha detto alla Bbc Focus Daniel Promislow, co-fondatore del Dog Aging Project. Condividiamo, con i nostri pelosi co-inquilini, anche molte regioni del genoma. E i ricercatori sanno bene quanto sia fondamentale le genetica nel farci avvicinare in buona salute alla soglia dei cent’anni. Si dice, spesso, che per arrivare a 90 anni conta lo stile di vita, per diventare centenari ci vuole un Dna di lusso.

Nei cani, per esempio, come scriveva Science nel 2007, si è visto che particolari mutazioni del gene Igf1 (l’ormone della crescita di tipo insulinico 1), sono centrali nel determinarne le diverse dimensioni: così il lillipuziano chihuahua presenta una particolare versione del gene, il gigantesco alano un’altra. Il primo vive anche 18 anni, il secondo arriva a fine corsa verso gli otto-nove. C’entra l’Igf1, presente peraltro anche nelle nostre cellule? E nel modulare la longevità umana, esattamente, che ruolo ha questo gene? Mappare il Dna canino aiuterà a scoprirlo.

Sono interessati ai geni dei cani (per amor loro ma pure nostro) anche gli scienziati ungheresi del dipartimento di Etologia dell’Università di Budapest, che ai padroni di cani superlongevi (oltre i 16 anni, corrisponderebbe a un supercentenario umano) hanno chiesto di inviare campioni di Dna dell’animale (saliva o peli), per capire qual è il segreto della loro lunga vita. Come noi, i cani possono essere poi colpiti da una forma di Alzheimer. Alla University of Kentucky College of Medicine, il team della neuroscienzata Elizabeth Head studia dal 2018, su 45 beagle, segni di declino cognitivo. I cagnetti ricevono, nel frattempo, il farmaco tacrolimus (noto anche con la sigla FK-506) che, come la rapimicina, è un immunosoppressore utilizzato nei trapianti. Seguendoli negli anni successivi (i beagle vivono circa 13 anni) Head vuole capire se la molecola ne preserva le abilità mentali.

L’idea parte da un’osservazione clinica: in alcuni studi si è visto che i pazienti trapiantati che assumono il farmaco per decenni sembrano protetti dalle placche cerebrali tipiche dell’Alzheimer. Secondo Head, il cervello dei cani si deteriora in modo analogo al nostro, e i risultati dei suoi esperimenti, oltre ad aiutarli a invecchiare in modo migliore, potranno gettare luce sul destino dei nostri neuroni.

Infine, fra i tanti «regali» che ci può fare il nostro amico a quattro zampe, c’è anche una maggiore comprensione dei meccanismi dei tumori. Al Flint Animal Cancer Center dell’Università del Colorado, veterinari e oncologi lavorano insieme con l’obiettivo di portare potenziali cure dalla «cuccia» al letto dei pazienti. Lo slogan riportato sul loro sito (csuanimalcancercenter.org) è «One cure», una sola cura: «Al Flint Cancer Center abbiamo imparato che il cancro è cancro. I nostri tumori sono gli stessi, a livello cellulare. Il che significa che ciò che funziona per i nostri pets potrebbe funzionare anche per noi». Tra i progetti, quello di testare su 800 esemplari un nuovo vaccino che potrebbe prevenire lo sviluppo di tumori. «Il vaccino ha il potenziale per colpire i neoantigeni, o nuove proteine, in più tipi di cancro in modo simultaneo» dice l’oncologo Douglas Tamm che segue il progetto. Se i risultati saranno positivi, l’anno prossimo potrebbe essere testato negli umani.

Infine, per amor di cronaca, pare che i cani vegani (lo afferma l’associazione animalista americana Peta), siano più longevi degli altri, e a sostegno citano il caso del border collie Bramble vissuto 27 anni (!), a suon di verdure e lenticchie. Ammesso che sia vero e dipenda dalla dieta e non dai geni, com’è ben più verosimile, la domanda è: meglio una lunga esistenza a sedano e carote, o qualche anno in meno assaggiando imperiali ossi di prosciutto? Nessun cane, probabilmente, avrebbe la minima esitazione.

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