In Israele e California è stato messo a punto un latte per neonati ricavato dai tessuti delle donne. Dopo la carne di laboratorio prodotta per replicazione cellulare, la sperimentazione applicata agli alimenti sposta pericolosamente i limiti di scienza ed etica. E a dettare le regole di un mercato gigantesco (che inciderà sulla nostra dieta) è solo il business.
Perché negare a una coppia che si è procurata un bambino con l’utero in affitto l’illusione di poter allattare al seno? Ecco un biberon di latte materno confezionato al momento. «Spremuto» da una mammella finita in un bioreattore che lo fornisce come mamma l’ha fatto. Stiamo parlando di scienza: quella che utilizza ciò che resta delle operazioni di mastoplastica. È la penultima frontiera, l’ultima non si può dire perché non c’è barriera normativa e non si capisce se e dove verrà posto il limite, della coltivazione cellulare per produrre alimenti. Nessuno scandalo per il fatto che la «materia prima» sia fornita dalle sale operatorie dove le donne vanno a farsi ridurre seni troppo floridi.
L’idea – e anche la tecnica – di produrre cibo da cellule coltivate è una derivazione dagli esperimenti che si conducono da anni, a scopo terapeutico, sulle staminali e sui tessuti umani. La prospettiva è che nel piatto arriveranno cellule che ci nutrono e ci curano allo stesso tempo? Filantropia? Piuttosto amore per il profitto anche se rivestito dalle buone intenzioni di salvare il pianeta. La Danone ha deciso di impegnarsi sulla nutrizione alternativa. Con un investimento di 2,5 milioni di euro l’azienda Danone manifesto venture ha comprato il 2 per cento di Wilk, che produce latte da coltivazione di cellule umane. Il progetto è stato sviluppato dalla professoressa Nurit Argov-Argaman dell’Università di Gerusalemme.
Come Remilk, altra impresa israeliana che sta impiantando in Danimarca il più grande reattore al mondo per produrre latte e formaggi senza le vacche, Wilk è partita con le cellule di mucca, ma si è spinta oltre e ora è in grado di ottenere latte umano completo di grassi e proteine – che costituiscono parti importanti del valore nutritivo – utilizzando tessuti provenienti appunto da interventi chirurgici di riduzione del seno. Una tecnologia sviluppata anche in California dove Leila Strickland e Michelle Egger, hanno fondato Biomiq, e annunciato di aver prodotto lattosio e caseina nel bioreattore in cui stanno «allevando» le cellule umane. Danone ha una posizione di leadership condivisa con Nestlé – anche la multinazionale svizzera ha investito oltre 20 milioni di euro nella carne coltivata – nella produzione e vendita di latte per neonati: tra i suoi marchi ci sono Mellin, Milupa, Aptamil.
Per Wilk lavorare con i francesi ha una valenza strategica, come ha dichiarato al Time of Israel l’amministratore delegato Tomer Aizen: «Ci aiuterà nel nostro progetto, svilupperemo una produzione casearia e contiamo di sbarcare in Europa molto presto». Chi pensa di giocare con un cocktail di tante cellule (anche umane?) per appetire il mercato è George Peppou, amministratore delegato dell’australiana Vow, ora famosa per aver rigenerato carne di mammut, il quale ha dichiarato: «L’obiettivo è quello di far passare alcuni miliardi di persone al nuovo consumo. Noi crediamo che il modo migliore sia reinventare la carne. Cerchiamo cellule facili da coltivare, molto gustose e nutrienti, e poi le mescoliamo per creare un prodotto davvero appetitoso». Da qui al 2030, dei mille miliardi di dollari l’anno che vale il mercato della carne nel mondo, metà contano di metterseli in tasca le 170 aziende che stanno lavorando a replicare le cellule. Good Meat, che è stata la prima ed è la più grande, ha cominciato già dal 2020 a vendere «pollo coltivato» a Singapore, unico Stato dove la commercializzazione è libera. Punta ad attivare là 10 nuovi bioreattori da 250 mila litri raggiungendo in tre anni la produzione di 12 mila tonnellate.
Ma da dove parte tutto questo? Dalle cellule «immortali» dell’utero di Henrietta Lacks, una donna morta di cancro nel 1951. Le sue cellule tumorali si riproducevano continuamente in coltura. Poi si aprì la via all’indagine sulla replicazione cellulare. Lo studio delle staminali umane, che se da una parte apre orizzonti di speranza nella cura di alcuni tumori del sangue, dall’altra alimenta il sogno della lunga vita. Sostiene Giuseppe Pulina, prorettore incaricato per la ricerca all’Università di Sassari e presidente di Carni sostenibili: «La Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ci ha detto che alla carne sintetica, mi ostino a chiamarla così, corrispondono 53 potenziali pericoli. Molti comuni agli alimenti di origine animale, ma ce ne sono tre specifici: l’uso di ormoni per farle crescere, e di antibiotici perché queste cellule non hanno corredo immunitario, e il potenziale trasferimento di sepsi a chi dovesse cibarsene. Non avendole mai prodotte in quantità non abbiamo alcuna prova delle reazioni che possono provocare. Anche L’Efsa, l’ente europeo, se deciderà il via libera lo farà in assenza di dati empirici. Mi chiedo come farà mai l’Ue ad autorizzare questi prodotti se negli allevamenti è vietato, a livello di codice penale, l’uso di ormoni, e ci sono regole precise per dare gli antibiotici».
Anche sotto l’aspetto ambientale, sostiene Pulina, siamo di fronte a una mistificazione: per alimentare da qui al 2030 la popolazione mondiale con la carne artificiale servirebbero 150 mila bioreattori da 20 mila litri che emetterebbero 44 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, ammettendo che l’enorme quantità di energia necessaria sia prodotta per metà da fonti rinnovabili. Allevando animali, ci sarebbero emissioni sei volte inferiori. «Bisognerebbe far sapere ai consumatori come vengono prodotte queste cellule» prosegue Pulina. «Un tempo, come brodo di coltura, si usava liquido amniotico di vacca e di cavalli estratto dagli aborti. Oggi dicono di aver sostituito questi supporti con funghi e lieviti, come si fa per coltivare le cellule tumorali, ma nessuno conosce la composizione di queste sostanze né quali siano gli additivi per la conservazione e l’aromatizzazione. L’aspetto inquietante è che per la prima volta metodi concepiti per la medicina riparativa diventano processi industriali che sostituiscono quelli agricoli e naturali. Noi insegniamo ai nostri ricercatori che la scienza è un’attività svolta per il bene dell’umanità. Ma molte volte abbiamo fermato la ricerca: su gas nervini, clonazione umana e manipolazione degli embrioni umani. Ora non vedo alcun limite».
Il direttore della Fao, il cinese Qu Dongyu, ha già espresso perplessità sulle mancate normative, il governo italiano si è appellato al principio di precauzione per vietare la carne coltivata, la Coldiretti e Filiera Italia, con Ettore Prandini e Luigi Scordamaglia, sostengono si tratti di prodotti farmaceutici e non alimentari. Non solo. Non si capisce che cosa possa accadere se la produzione di questi alimenti andasse in mano alle industrie farmaceutiche: le cellule possono essere veicolo di patologie da curare poi con i farmaci? Esiste peraltro un gigantesco conflitto d’interessi dal momento che Bill Gates è il primo finanziatore della carne sintetica, ma anche il principale sponsor dell’Organizzazione mondiale della sanità. Infine, non esiste ancora alcun protocollo di legge per rendere evidenti gli ingredienti di un’eventuale bistecca sintetica. Ma il limite non esiste perché la carne umana è già stata replicata. Lo ha fatto per provocazione Orkan Telhan che ha esposto la bistecca Ouroboros, nome del mitologico serpente che mangia sé stesso, al Design Museum di Londra. Era stata creata in laboratorio, come ha spiegato Andrew Pelling, uno degli scienziati che l’hanno prodotta, «partendo da sangue destinato alle trasfusioni che stava per scadere». Una volta coltivate nel bioreattore queste cellule sono state disposte in dischetti di plexiglass.
L’Unione europea ha una posizione ambigua. La commissaria alla Salute, la cipriota Stella Kyriakidou, ha elaborato un nuovo regolamento su sangue, tessuti e latte materno che garantirà «la protezione di donatori e riceventi di latte materno umano, di microbiota, di preparati ematici non trasfusi e di qualsiasi altra sostanza di origine umana che potrebbe essere applicata sugli esseri umani in futuro». Dopo la carne coltivata, il latte senza mucche, le uova senza galline, il latte materno senza mamme e gli insetti a colazione, sta per arrivare anche il pesce senza pesce. La californiana Wildtype produce salmoni in laboratorio. Ha stretto una collaborazione con Donaldson Solaris Biotech, leader nei bioreattori, fermentatori e sistemi di filtrazione. E Matteo Brognoli di Solaris, che finora ha operato in campo farmaceutico, sostiene: «Le proteine alternative sono il segmento in più rapida crescita per i sistemi di bioreattori e siamo orgogliosi che i nostri “coltivatori” siano la tecnologia abilitante per il salto nell’industria alimentare».n
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