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Il piatto piange

Il piatto piange

I cibi ottenuti in laboratorio rappresentano un mercato che vale centinaia di miliardi di euro. I maggiori investitori globali occupano il settore degli alimenti «alternativi» e l’Unione europea ora mette a rischio allevamenti e colture tradizionali.


l montepremi è di 450 miliardi di euro, estrazione entro il 2030. A certificarlo è la banca internazionale Barclays in uno studio sulla guerra delle proteine. Non sono compresi i 250 miliardi stimati per i sostituti vegetali, gli hamburger vegani, e un altro centinaio di miliardi di larve e cavallette. Sono circa 800 miliardi da incassare se si riesce a ghettizzare in Occidente, e in Europa, la zootecnia. Il piatto è ricco e a spartirselo sarà l’oligopolio. Una cinquantina di multinazionali che coprono dai sementi alla distribuzione. Sopra di loro stanno i grandi fondi: BlackRock, Berkshire, Sfm che significano gli investitori globali Warren Buffet e George Soros.

E sopra ancora c’è la Wbcsd (World business council for sustainable development). L’acronimo è tutto un programma: la sostenibilità per cambiare il modello agricolo e alimentare. C’è un grillo affacciato sul mondo dalla cosiddetta «finestra di Overton: quella definizione della sociologia per cui si crea un allarme, quello climatico e poi quello sulla salute con l’Oms sempre pronta a validare i suggerimenti dei suoi sponsor, primo fra tutti il magnate Bill Gates, per rendere accettabile ciò che i consumatori rifiuterebbero: la carne «artificiale», la dieta a base di locuste, frutta e verdura manipolate geneticamente, i beveroni sintetici sfrattando vino e birra.

Carne coltivata e insetti vanno di gran moda grazie soprattutto all’Europa che con l’ossessione verde del piano decennale Farm to Fork ha deciso di mandare in pensione l’agricoltura tradizionale. In potenza è il primo mercato, lo sponsorizza il vicepresidente della Commissione, l’olandese Frans Timmermans. Intendiamoci, tutto per il bene nostro e del pianeta minacciato dalle flatulenze delle vacche. Lo hanno dimostrato alla Vow una multinazionale australiana che ha prodotto una gigantesca polpetta di carne dalla preistoria. I suoi esperti hanno estratto da resti fossili di un «mammuth lanoso» il Dna, lo hanno integrato con quello di elefante e poi, accelerando la moltiplicazione cellulare, sono arrivati a confezionare un ammasso grande più o meno come una palla da bowling.

Tim Noakesmith, cofondatore e direttore della Vow, spiega: «Abbiamo scelto il mammuth perché è un animale simbolo della perdita di diversità e dei cambiamenti climatici». Lo scopo, dice il ceo George Peppou: «Mixare le cellule di varie specie per offrire nuovi tipi di carne a miliardi di consumatori che smetteranno di mangiare quella convenzionale». Si presta anche la «carne di coccodrillo» che l’Efsa, l’ente di controllo europeo che ha dato il via alla polvere d’insetti e sta per fare altrettanto con la carne coltivata, ha già ammesso nella nostra dieta limitatamente alla specie niloticus, quella africana. C’è un «però» sui prezzi. L’alligatore costa 100 euro al chilo; la farina d’insetti (che, come sostiene il nutrizionista Giorgio Calabrese, può provocare allergie, zoonosi, problemi renali, diabete e financo tumori per sovradosaggio proteico) 70 euro al chilo e la vogliono mescolare con quella di grano; la carne di laboratorio – limitandoci solo al pollo – 4 euro al grammo.

Che il piatto pianga per centinaia di milioni di contadini e per alcuni miliardi di consumatori è un effetto collaterale, non si sa quanto indesiderato. Nel mondo ci sono circa 490 milioni di piccoli pescatori, col pesce riprodotto in vitro sono alla fame. All’impresa lavora attivamente la tedesca Blu Seafood, impegnata a ricreare artificialmente salmone atlantico, trota iridea e carpa partendo da cellule coltivate e arricchite di proteine vegetali. Nomad Foods ha firmato un accordo con la startup californiana BlueNalu per studiare il lancio di pesce da colture cellulari. Il business è consistente: il consumo mondiale è 20 chili a testa, in Italia si arriva a 28.

È evidente che in gioco c’è anche la democrazia economica: vale per il pesce come per la carne. La Nestlè – tanto per stare in Europa – ha confermato la collaborazione con la startup israeliana Future Meat Technologies per immettere sul mercato la carne «cellulare». L’investimento è multimilionario. Un contadino con 800 euro acquista una vacca, con mille un toro: può avere un vitello all’anno e almeno 25 litri di latte al giorno per circa 280 giorni. Il che significa, per esempio, fare Parmigiano Reggiano o Grana Padano e moltiplicare almeno per quattro il valore del latte. Ma non avrà mai i soldi per sviluppare un bioreattore e farsi la bistecca coltivata a partire da cellule animali.

Gli investimenti in Europa sono per decine e decine di milioni. A finanziarli in larga parte è la Commissione Ue che ha messo a disposizione 9 milioni di euro per studiare come far diventare appetibile la carne coltivata, altri 9 per ridurre i costi di produzione, 7,5 per analizzare le reazioni dei consumatori, ulteriori 10,5 per «sostituire il consumo di proteine animali tradizionali nelle diete europee in modo che il 50 per cento dell’apporto alimentare totale di proteine derivi da fonti alternative». Serve dire che il Paese più beneficiato è l’Olanda di Frans Timmermans, dove il governo ha stanziato 60 milioni di euro per i più potenti bioreattori per la riproduzione delle cellule staminali? La Remlink, in Danimarca, sta producendo un latte «speciale» – ivi compreso quello materno – attraverso fermentazioni.

Per capire se stiamo parlando di scienza o di un colossale affare bisogna partire dal Consiglio mondiale Wbcds, cui si è accennato. Ne fanno parte Cargill, Kellog’s, Bill Gates, Sergey Brin (Google), Richard Branson (Virgin), Vanguard, BlackRock ma soprattutto ne fa parte chi non si sospetterebbe mai: Jbs. È la più grande azienda al mondo di lavorazione della carne, sede in Brasile, stabilimenti ovunque, bilancio 65 miliardi di euro. Ha scoperto che nella guerra delle proteine c’è da guadagnare. Lo ha spiegato Bill Gates nel novembre scorso, quando Ursula von der Leyen è andata a rendergli omaggio alla Bill & Melinda Gates Foundation: «La carne coltivata serve agli occidentali, al resto del mondo daremo l’altra».

L’ex numero uno di Microsoft è il primo finanziatore privato dell’Oms che vuole mettere al bando la carne rossa, il primo investitore nella carne di laboratorio e il maggiore proprietario terriero del mondo: 200 mila ettari dove coltiva verdura che ha già incorporato il vettore genetico mRna per vaccinare chi mangia le insalate. Gli aderenti al cartello Wbcds detengono l’80 per cento del mercato attuale delle alternative alla carne. Ma sono gli stessi che gestiscono gli allevamenti iperintensivi. Emettono poco meno di un terzo dei gas serra, valgono la metà del Pil agricolo mondiale. L’Europa – lo testimonia il rapporto Ipes-Food – è il primo cliente per i sostituti della carne, con il 38,5 per cento dei ricavi globali e i consumatori si orientano solo sul prezzo.

Per incentivare il consumo di carne in provetta e d’insetti bisogna mettere fuori mercato la carne tradizionale. La Commissione europea lo ha fatto caricando sugli allevamenti il costo di smaltimento delle emissioni, parificando la zootecnia all’industria. Ebbene, gli allevamenti europei sono responsabili dell’11 per cento delle emissioni, quelli italiani appena del 5,1 per cento e, come spiega il Giuseppe Pulina dell’Universtà di Sassari, presidente di Carni Sostenibili: «Con le nuove misurazioni dell’Università di Oxford si dimostra che le stalle italiane – in media con 80 capi – hanno un effetto negativo sulle emissioni di gas serra». Il vicepresidente della Commissione Ue Timmermans nella sua lotta contro le vacche usa dati che risalgono al 2016; per esempio che per un chilo di carne di manzo sono necessari 11 mila litri d’acqua. Nel conto ci sta anche la pioggia che cade sui pascoli… In realtà ogni animale ne consuma non più di 800 litri.

Perché allora questa guerra in nome dell’ambiente all’agricoltura tradizionale? La risposta è sempre il rapporto Ipes. L’Europa deve smettere di produrre e diventare solo un grande mercato. È una contraddizione evidente, che il nostro governo col ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida ha denunciato con alcuni provvedimenti. Quattro decreti impongono etichette trasparenti e canali separati per la commercializzazione degli insetti, un altro decreto vieta la produzione, l’importazione e la vendita della carne coltivata in laboratorio. Su questo si è scatenata l’ira di chi ritiene che così facendo l’Italia resti indietro nella ricerca, condannandosi all’oscurantismo alimentare.

La startup dell’Università di Trento Bruno Cell sostiene che «bloccare la vendita è una caccia alle streghe» ma a Tor Vergata il professor Cesare Gaglioli afferma che tra cinque anni avremo la bistecca italiana fatta in laboratorio. Esce bianca dai bioreattori, ma basta colorarla. Però dovremmo dire addio ai nostri formaggi. Solo Parmigiano Reggiano e Grana Padano valgono un mercato da 5 miliardi di euro. Ma ci sarebbe anche il blocco a salumi, concerie, pelletteria. Un conto spannometrico dice che dalla zootecnia dipende una filiera che per l’Italia vale 80 miliardi. Se vince Frankenstein a tavola, il piatto piange davvero.

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