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Quel batterio goloso di plastica

Quel batterio goloso di plastica

Si chiama Ideonella sakaiensis e i suoi enzimi sono in grado di digerire il Pet in parti minuscole, pronte a essere riciclate. Un risultato risolutivo per combattere l’inquinamento dei mari.


Un’analisi su Science stima che finora l’umanità ha prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. La questione cruciale nel nostro immediato futuro è come liberarci di quella quota diffusa nell’ambiente. A chi pensa che l’obiettivo sia troppo ambizioso, si potrebbe far notare che talvolta la natura inventa meccanismi che compensano i danni perpetrati dall’uomo. Potrebbero essersi evoluti microrganismi capaci di digerire la plastica producendo sostanze di scarto non dannosi per l’ambiente? Alla luce di studi su Nature e Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences), si può rispondere di sì, precisando che è dovuta intervenire la mano dell’uomo per perfezionare il processo e ottenerlo in tempi brevi.

Dal batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, che si nutre del Pet (polietilene tereftalato) destinato alla produzione di bottiglie, contenitori, pellicole e simili, si è riusciti a costruire un assemblaggio di enzimi che sminuzza la plastica in parti infinitesime, riciclabili in maniera circolare. Significa che sarà possibile costruire reattori in cui la plastica viene ridotta e riassemblata rapidamente a formare altri oggetti senza alcuna perdita di qualità. La storia di questa ricerca aiuta a capire le enormi potenzialità del risultato. Nei primi anni ’90 la rivista Applied and Environmental Microbiology diede notizia di batteri del genere Streptomyces e Phanerochaete capaci di biodegradare sottilissimi film di polietilene. Il processo non era efficiente, richiedeva temperature superiori a quelle dell’ambiente e gli strati di plastica erano troppo sottili. Siccome gli enzimi di questi batteri favorivano le reazioni chimiche di biodigestione della plastica, (come i nostri enzimi della saliva che demoliscono le sostanze alimentari), partì una caccia al batterio «mangia plastica», per individuarne altri con enzimi ancora più potenti.

Nel 2016, ricercatori del Kyoto Institute of Technology scoprirono che alcuni sedimenti di polietilene tereftalato incubavano l’Ideonella sakaiensis 201-F6. Studiando il processo con cui il batterio digeriva la plastica si individuarono due enzimi, il PETase e MHTase che rompevano il Pet negli elementi costitutivi glicoletilene (Eg) e tereftalato (Tpa). Mentre il glicoletilene è una sostanza chimica dai molti usi – per esempio come antigelo per auto – il tereftalato non ha altri utilizzi che il Pet e non viene digerito da alcun tipo di batterio conosciuto. Restava dunque una sostanza chimica di scarto che, non potendo essere smaltita, era un inquinante.

Alcuni mesi fa, due università americane annunciavano su Pnas l’identificazione di quello che si potrebbe definire l’anello mancante: la scoperta di un altro enzima, il Tpado, che riconosce il tereftalato e lo rompe con estrema efficienza. A questo punto PETase, MHATase e Tpado furono ingegnerizzati e riuniti per portare la velocità di digestione della plastica fino a sei volte quella dei tre enzimi separatamente. Tuttavia, l’assemblaggio faceva bene il loro lavoro solo a temperature alte e dunque un eventuale bio-reattore avrebbe richiesto troppa energia, con emissioni di anidride carbonica superiori a quelle desiderate.

Finalmente, si arriva all’annuncio su Nature: scienziati dell’Università del Texas, utilizzando un modello basato sul machine learning, hanno individuato quali mutazioni possono consentire all’enzima PETase di lavorare a temperature ambiente, creando di fatto un super-batterio mangia plastica. «Ci stiamo impegnando per un uso industriale di queste ricerche» dice Andrew Ellington, primo firmatario dello studio su Nature. «Quello che vogliamo ottenere alla fine è un processo in queste fasi: costruzione, uso, decostruzione e ricostruzione di plastica di alta qualità con danni ambientali ridotti quasi a zero. Oggi solo il 10 per cento di tutta la plastica è riciclata per formare prodotti di bassa resa. Il resto finisce in massima parte nelle discariche dove viene bruciata con rilascio di sostanze tossiche. Della plastica abbiamo bisogno, se non altro per avvolgere i cibi e proteggerli da batteri e virus. Occorre solo riciclarla in maniera efficiente, un obiettivo ormai a portata di mano».

Delle 367 tonnellate di rifiuti di plastica prodotti, circa 10 milioni finiscono in mare con effetti nocivi sulla salute umana. Questi milioni di tonnellate non potranno mai essere smaltiti in mare aperto (almeno per ora), a meno di raccoglierli e metterli in un reattore che lavori a temperatura controllata. Però, una volta che i superbatteri entreranno a far parte a pieno titolo del processo di riciclo, è molto probabile che il totale dei rifiuti prodotti diminuirà. L’epistemologo Paul Feyerabend, conosciuto per il suo atteggiamento irriverente nei confronti della scienza, una volta disse che questa disciplina è chiamata a risolvere i problemi che lei stessa crea. Ha inventato il problema della plastica, ora lo ha quasi risolto. Almeno si spera.

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