Dai cannoni laser ai missili che non si possono intercettare, fino alle tecno-armature per la fanteria: si sperimentano armi, lo fanno soprattutto le superpotenze, che una volta di più accrescono le capacità offensive e di distruzione.
Lo scorso 19 febbraio, con le truppe russe già ammassate lungo i confini con l’Ucraina per l’imminente invasione e la tensione internazionale alle stelle, Vladimir Putin era chiuso in una saletta del Cremlino davanti a una diretta video. L’autocrate di Mosca non stava però seguendo una partita di calcio, ma un’esercitazione su larga scala delle sue forze navali.
In questo sfoggio di muscoli marinareschi, rivolto preventivamente all’Occidente, è stato incluso il lancio di missili balistici Kinjal – usati nelle scorse settimane contro le infrastrutture ucraine – e missili da crociera Zircon, che il presidente si è spinto a definire «invincibili». La particolarità di questi vettori è di essere ipersonici: raggiungono una velocità fino a 10 volte quella del suono, sufficiente a sorvolare l’Italia in sei minuti.
L’attrito generato con l’aria è tale da produrre una nube di plasma che li scherma dai radar, ma la superlativa velocità permette loro anche di «bucare» i sistemi di intercettazione. Persino l’avanzato Aegis della Marina americana impiega una decina di secondi a inquadrare un bersaglio: sufficienti ai razzi di Putin per trovarsi già 20 chilometri più in là. È solo uno dei botta-e-risposta tecnologici nella sfida con cui le tre superpotenze militari cercano di ribaltare a proprio favore gli equilibri geopolitici.
Ancora prima dell’Orso russo, è stato il Dragone a cogliere l’opportunità di mettere in crisi la sicurezza del Pentagono con il deterrente nucleare, visto che le testate atomiche si addattano bene anche ai nuovi modelli. Il primo missile ipersonico «made in China» è già operativo dal 2019, e gli scienziati di Xi nel frattempo non si sono seduti sugli allori. Hanno infatti un sistema a ricerca di calore, come quello già adottato per l’antiaerea convenzionale, per fare tiro al bersaglio anche in versione ultraveloce con aerei Stealth – ovvero invisibili ai radar – come i caccia F22 americani.
L’Aquila americana su questo fronte della guerra del futuro annaspa. Il suo sistema AGM-183 ARRW, sviluppato da Lockheed Martin, ha inanellato una serie di test fallimentari. Durante l’ultimo, lo scorso dicembre, non si è neanche acceso il motore. Così il Congresso, nell’approvare le spese militari per il 2022, ha ridotto a «solo» mezzo miliardo di dollari, su ben 782 di budget complessivo, i fondi per lo sviluppo degli armamenti ipersonici. Washington tenterà però di tappare le falle in difesa, con 256 milioni di dollari per lo sviluppo dell’Hypersonic and Ballistic Tracking Space Sensor: un network di sensori orbitali in grado di identificare per tempo anche le inafferrabili minacce di nuova generazione.
La consapevolezza del ritardo accumulato sui missili ipersonici è comunque diffusa tra i vertici della Difesa americana. Tanto che la Marina ha staccato la spina alla sperimentazione di questa tecnologia nell’ambito dei proiettili d’artiglieria da sparare con cannoni a rotaia, capaci di imprimere ai proiettili una velocità sette volte quella del suono tramite accelerazione elettromagnetica. Dopo averci speso mezzo miliardo di dollari, gli ammiragli Usa si sono resi conto che costi proibitivi e gittata ridotta non valevano l’investimento. Preoccupazioni che i rivali cinesi non si pongono: secondo l’intelligence americana, Pechino sarà in grado di mettere in mare la sua versione già nel 2025.
Maggior fortuna la flotta statunitense l’ha avuto con una tecnologia bellica dal sapore fantascientifico: un cannone laser ad alta energia. Montato negli scorsi anni sulla nave da trasporto anfibio Uss Ponce, da poco ritirata dal servizio, è stato usato con successo in una serie di esercitazioni per distruggere diversi bersagli, anche in movimento. Il dispositivo non spara raffiche come le torrette del film Guerre Stellari ma proietta un raggio in grado di scaldare il bersaglio a temperature superiori ai 500°, sufficienti a far esplodere, per esempio, un drone kamikaze come quelli già usati dall’Iran e dalle sue milizie nel Golfo.
I velivoli senza pilota non sono una novità nei cieli sopra i campi di battaglia: gli Stati Uniti li impiegano da due decadi. Negli ultimi anni tuttavia l’aumento dell’efficienza e la diminuzione dei costi hanno portato a una diffusione a macchia d’olio che li colloca tra le armi che caratterizzeranno il futuro della guerra. I più noti oggi sono i Bayraktar TB2, fabbricati all’azienda turca Baykar dell’omonima famiglia, legata dinasticamente allo stesso Recep Tayyip Erdogan.
Il presidente turco ne ha fatto uno dei pilastri della politica estera neo-ottomana: sono stati determinanti per gli interventi turchi in Siria e a Tripoli e poi in Nagorno-Karabakh, dove gli alleati azeri li hanno usati per decimare mezzi e postazioni dei nemici armeni. Prove che hanno convinto l’Ucraina ad acquistarne alcune decine in passato e a impiegarli contro gli invasori russi in queste settimane.
«I contractor russi del Gruppo Wagner avevano già affrontato i droni turchi in Libia, dopo che Erdogan li aveva forniti al governo di Tripoli per respingere l’offensiva delle truppe di Khalifa Haftar, sostenute da Mosca» conferma Gianandrea Gaiani, direttore del magazine Analisi Difesa. «Riguardo all’Ucraina è difficile filtrare la verità dalla propaganda dei due schieramenti, ma parrebbe che le truppe di Kiev li abbiano usati con successo per colpire soprattutto le colonne di rifornimento russe, e che di contro i soldati di Mosca ne abbiano abbattuti una significativa quantità con i sistemi anti-aerei Pantsir».
Se il controllo dei mari resta fondamentale per proiettare la propria forza militare all’estero e quello dei cieli per poter dominare dall’alto lo scontro, per controllare il campo resta necessaria, per ora, la fanteria. Americani, russi e cinesi puntano tutti nella stessa direzione per potenziare i propri soldati: lo sviluppo di esoscheletri, strumenti digitalizzati esterni in grado di potenziare le capacità fisiche umane. Le forze armate in capo a Joe Biden e a Xi Jinping hanno testato negli scorsi anni diversi modelli per aiutare nel trasporto di carichi pesanti. I successori dell’Armata rossa si sono spinti oltre: Mosca ha presentato nel 2021 un prototipo chiamato Ratnik 3, una rivisitazione contemporanea dell’armatura pesante medievale che include corazza in titanio e casco integrale con visore 3D.
L’ultimo campo di battaglia, però, è lo spazio. Pechino ha annunciato nel 2021 di aver sviluppato un dispositivo antisatellite in grado di agganciarsi alle sonde spaziali, per poi essere fatto detonare al momento desiderato. Russi e americani sembrano favorire invece per lo stesso scopo il lancio di missili dalla superficie terrestre, tattica già collaudata con successo da entrambi. Sullo sfondo di questa nuova corsa alle armi si muove l’Europa, chiamata oggi dagli avvenimenti ai suoi confini orientali a ripensare l’approccio alla difesa, tecnologia inclusa.
Secondo il generale Antonio Li Gobbi, già director operations dello Stato maggiore della Nato, «è arrivata l’ora per l’Unione europea, o almeno per un gruppo coeso dei suoi membri, di pensare non solo a una politica di difesa comune ma anche a un comune approccio nel settore della ricerca di sistemi d’arma, prevedendo una divisione di compiti tra le industrie della difesa dei singoli Paesi, evitando duplicazioni e con l’obbligo per tutti di dotarsi degli stessi sistemi. Concetto facile da enunciare, ma la cui applicazione pratica comporterebbe razionalizzazioni e tagli di rami secchi, con immancabili levate di scudo da parte delle industrie nazionali».
L’annuncio del governo tedesco, a guerra in Ucraina appena iniziata, di voler stanziare 100 miliardi di euro per migliorare gli armamenti del Bundeswehr, le forze di difesa federali, sembra indicare che almeno Berlino sia intenzionata ad andare in tale direzione. Secondo la famosa massima dello scrittore romano Vegezio, «si vis pacem, para bellum».