L’Egitto, i Maya, l’uomo di Similaun… Ma al di là delle scoperte più celebri, tanti siti del Mediterraneo, e persino il nostro giardino (se «indagato» con le tecniche giuste) possono regalarci molte sorprese. Come racconta Eric H. Cline, uno dei maggiori archeologi al mondo.
Due adesivi attaccati a una parete. Il primo dice: «Archeologia? Piuttosto vado a zappare». Il secondo: «Archeologo: il lavoro più bello del mondo. Io conservo il passato, tu che fai?». Eric H. Cline, archeologo di fama mondiale e direttore del Capitol Archaeological Institute presso la George Washington University, ha arredato così il suo ufficio, esprimendo a modo suo l’orientazione bivalente del pubblico verso la sua disciplina. Il suo libro Negli scavi. L’archeologia raccontata da chi la fa (Bollati Boringhieri) potrebbe essere definito come il tentativo di convincere i suoi potenziali lettori che è il secondo adesivo a rendere giustizia all’archeologia. Alla domanda se davvero tutti noi possiamo improvvisarci archeologi, risponde che sì, una persona potrebbe perfino cominciare a scavare nel proprio giardino e scoprire qualcosa di interessante. « Ci vuole una cordicella per delimitare un’area specifica e poi un piccolo piccone, una paletta, un coltello, un cucchiaio e un setaccio – va bene anche uno di quelli per la farina – per filtrare la terra rimossa. Una possibilità è effettuare il cosiddetto scavo orizzontale che consiste nel rimuovere, studiare e fotografare strati di terra successivi». Che cosa si può trovare? «In molti luoghi del Mediterraneo, dall’Italia a Israele, a ogni palata affiorano resti archeologici. Si tratta prima di tutto di cocci, frammenti di recipienti rotti migliaia di anni fa. A quei tempi la ceramica veniva prodotta con argilla locale e si rompeva facilmente. Era più semplice buttare i cocci e fabbricare un nuovo piatto che cercare di aggiustarlo. Ecco perché si trovano così tanti frammenti. Poi, facendo attenzione, uno può anche trovare utensili in pietra come selce, ossidiana o quarzo: facili sia da produrre sia da rompere».
Nell’area del Mediterraneo la giornata tipica dell’archeologo inizia alle 5 del mattino, quando si comincia a scavare. «Continuiamo fino alle otto e mezza, poi ci fermiamo per la colazione e riprendiamo fino all’una. Poi basta, troppo caldo: gli scavi si fanno a giugno e luglio quando c’è maggiore disponibilità di volontari: studenti universitari, ma anche persone che desiderano fare questa esperienza: medici in pensione, avvocati, infermieri, insegnanti, studiosi. Infine, nel pomeriggio si analizzano i resti trovati al mattino». Le tecniche di rilevamento attuali sono basate su georadar, magnetometri e perfino immagini satellitari. Per la datazione degli oggetti, si può contare sulla datazione a termo-carbonio, la termoluminescenza e il metodo del potassio-argon.
«Ma oggi un archeologo dovrà comunque servirsi dei vecchi strumenti, picconcini, zappette e altri attrezzi simili, così come dovrà fare spostamenti a piedi, ricognizioni sistematiche e organizzate, e dovrà essere molto attento a ciò che vede» dice Cline. Gli indizi che il sottosuolo contiene tracce del passato sono intorno a noi. Un archeologo deve solo impararli: «Per esempio, quando alcune piante sono più rigogliose di quelle circostanti, forse sotto la superficie sarà sepolto un antico fossato, dato che lì si accumulano acqua e sostanze nutritive. Oppure: ci si accorge della presenza di un muro sottoterra dal fatto che, applicando un voltaggio da una parte all’altra del terreno, la corrente viene interrotta».
Le nostre città sono costruite su strati successivi, segni delle civiltà che ci hanno preceduto. « Nel corso della storia, le case sono spesso nate sopra le vecchie e ciò ha creato i differenti strati che si vedono in alcuni scavi archeologici. Ogni volta che una città veniva distrutta o abbandonata, arrivava qualcun altro che vi costruiva sopra un nuovo insediamento. Ecco perché in molte città europee, grazie al lavoro degli archeologi, è possibile scendere sottoterra e vedere antiche città romane. Il sito di Megiddo, in Israele, è formato dai resti di 26 città realizzate una sopra l’altra nel corso di 5 mila anni».
I 26 strati formano un monticello di 30 metri: in ebraico Har Megiddo vuol dire «monte di Magiddo», da cui Armageddon, secondo la Bibbia il luogo del Giudizio Universale. «La città di Troia è un altro esempio di stratificazioni successive, ben dieci» aggiunge Cline. «Per me gli scavi di Troia, insieme con quelli di Pompei ed Ercolano e alle scoperte di varie città Maya nell’America Centrale, sono tra i più importanti per quello che ci dicono sul nostro passato».
Anche le mummie, secondo Cline, insegnano tante cose. Il suo libro dà rilievo a tre di loro: l’Uomo del Similaun, detto Ötzi, la Mummia dell’Altai e la Mummia Juanita, scoperte rispettivamente nel 1991, 1993 e 1995. «Ötzi giaceva incastrato in una cavità formata da rocce alpine. Un ghiacciaio avanzando lo ricoprì conservando il corpo per migliaia di anni. Risale al 3200 a. C. circa, più di 600 anni prima delle le piramidi. Ci sono voluti anni di studi approfonditi per capire come fu ucciso: nel 2001 un radiologo individuò una punta di freccia conficcata nella schiena con ferita diversi centimetri più sotto. L’aggressore aveva colpito dal basso verso l’alto recidendo un’arteria e causando la morte per emorragia».
Fare archeologia significa soprattutto studiare il contesto, collegare i fatti: «Gli scavi intorno a Ötzi misero in luce un copricapo in pelle d’orso, un arco in legno di tasso, una faretra con due frecce, un pugnale di selce e un’ascia in rame proveniente dalla Toscana. Questi e altri particolari, come il fatto che Ötzi aveva 61 tatuaggi, sono una finestra sul passato».
La mummia di Altai è stata invece rinvenuta nell’altopiano di Ukok, sud della Siberia: «Risale al V secolo a.C., aveva 25 anni ed era stata seppellita con sei cavalli, forse perché l’accompagnassero nell’aldilà. Apparteneva alle genti di Pazyryk, di cui parla Erodoto, un gruppo nomade che trascorreva molto tempo a cavallo. I tatuaggi su spalla e braccio ritraggono un animale mitologico simile a un cervo con una testa di grifone. Altri resti individuati lì intorno avevano simili tatuaggi. Un’altra scoperta affascinante è quello di una ragazza inca tra 12-14 anni ritrovata nel Monte Ampato, in Perù. Rimasta sepolta nel ghiaccio per circa 500 anni era forse la vittima di un sacrificio degli Inca».
«Il fatto che, ovunque nel pianeta, ghiacciai e permafrost si stiano sciogliendo sarà un’opportunità per nuove scoperte. Per gli archeologi c’è ancora moltissimo da fare» aggiunge Cline. È dell’altro giorno, per esempio, il ritrovamento in Siberia di un microbo in uno stato di congelamento risalente a 24 mila anni fa. «È come poter parlare con un personaggio storico» hanno commentato i ricercatori.
E di noi cosa diranno le future generazioni? Come interpreteranno i resti della nostra civiltà? Non proprio scherzando, Cline risponde: «Dipende. Uno zoo potrebbe creare qualche problema, a meno di non scoprire gabbie o indicazioni segnaletiche; i musei saranno prima o poi compresi; a creare problemi sarebbero luoghi come Starbucks e McDonald’s che verrebbero interpretati come templi o santuari, con tanto di simboli e divinità dipinte con le corone in testa, alla stregua di Zeus ed Era per i greci».
Questo deve farci riflettere sui possibili sbagli di interpretazione che possiamo commettere nel leggere ciò che è stato. «Uno degli esempi migliori di errori simili sono le tombe dei Vichinghi: siccome all’interno vi erano spade si pensava fossero tombe di guerrieri. Invece erano donne-guerriero». Come il presente, anche il passato non va scrutato attraverso la lente dei nostri pregiudizi.