Per ridurre le emissioni inquinanti in vista del 2050 cambia anche il modo di coltivare: si pratica «in verticale» sui tetti e sulle pareti di edifici urbani e, nelle campagne, i terreni possono autorigenerarsi in modo naturale.
Ripensare l’agricoltura è fondamentale per raggiungere la neutralità climatica nel 2050. E lo è ancora di più ora che, alla Cop26 di Glasgow, le economie mondiali non hanno preso impegni sufficienti a evitare un aumento delle temperature medie superiore a 1,5 gradi. Si stanno così facendo strada due «nuove agricolture», una in città, l’altra nelle campagne. Nelle metropoli, lungo le facciate degli edifici, cresce la cosiddetta agricoltura verticale, o vertical farming, che sfrutta substrati inerti quali argilla espansa o lana di roccia e irrigazione con acqua e composti inorganici.
Si tratta di un tipo di coltivazione praticabile anche fuori città, in serre su più livelli in altezza che consumano il 95 per cento in meno di acqua e sono più produttive del 75 per cento rispetto all’agricoltura tradizionale. Il Consiglio regionale della Lombardia ha da poco approvato una legge che permette la vertical farming sui tetti e lungo i muri non solo per le specie ornamentali e ortofrutticole ma anche per quelle erbacee che favoriscono l’isolamento termico.
Nel testo, viene definita come «sistema di coltivazione agricola in camera di crescita chiusa a controllo ambientale totale con sviluppo su moduli verticali sovrapposti». Si fa anche cenno alle tecniche di irrigazione innovative, dall’acquaponica all’aeroponica: nel primo caso si usa l’acqua di scarto da allevamenti di pesci, ricca di sostanze nutritive, e nel secondo la si nebulizza arricchita di minerali, senza uso di terra.
Il mercato dell’agricoltura verticale ha già raggiunto un giro d’affari mondiale di circa 2 miliardi di euro, con una previsione di quasi 6 miliardi per il 2022. Sarà una spinta per un’economia locale e a chilometro zero che non necessita di passaggi intermedi: chi ha una serra verticale produrrà e venderà prodotti freschi.
Milano non è la sola città coinvolta. Negli Stati Uniti fattorie verticali e modulari sono già una realtà, in Russia le aziende che praticano l’agricoltura verticale sfiorano le mille tonnellate di prodotti annuali, a Dubai esistono impianti di migliaia di metri quadri. Allo studio c’è anche la possibilità di praticarla sulla Luna.
I benefici dell’agricoltura verticale riguardano soprattutto l’ambiente, dall’assorbimento delle polveri sottili e altre sostanze inquinanti al risparmio di acqua ed energia, fino all’incremento della biodiversità. L’ultimo studio, pubblicato su Ecological Applications, prova che in sei città americane in cui questa tipo di coltivazione si è affermata c’è stato un aumento del numero delle specie di uccelli presenti nelle rispettive regioni. Risultato notevole visto che, secondo una ricerca della Società di ornitologia della Repubblica Ceca, il numero di molte specie di uccelli in Europa è crollato tra il 17 e il 19 per cento negli ultimi 40 anni, con punte del 60 per i passeri domestici. A causa di agricoltura intensiva, pesticidi, perdita di habitat e rapido declino degli insetti si registrano, rispettivamente, 75 milioni in meno di stormi e 68 milioni in meno di allodole. In un circolo vizioso, questo declino si ripercuote sull’agricoltura che deve quindi utilizzare agenti chimici contro diverse specie aliene di insetti. Un’agricoltura come quella che conosciamo adesso produce una quantità di CO2 che oscilla, a seconda dell’anno, tra il 17 e il 24 per cento di tutte le emissioni totali. I terreni a monoculture rendono a lungo termine i suoli poveri di nutrienti, e i diserbanti chimici ostacolano appunto la biodiversità.
Nella Pianura Padana vengono immesse ogni anno circa 150 mila tonnellate di prodotti fitosanitari, oltre a liquami da zootecnia il cui contenuto di ammoniaca, combinandosi in atmosfera con altri componenti, concorre a formare fino a più del 50 per cento delle polveri sottili totali. Mentre i cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova le colture con prolungati periodi di siccità. Così, se le metropoli puntano sul verde verticale, nelle campagne si diffonde l’«agricoltura rigenerativa». Ricercatori del centro catalano Creaf (Centre de Recerca Ecològica i Aplicacions Forestals), grazie a un progetto cofinanziato dal programma Life della Commissione europea, hanno messo a punto un sistema di pratiche agricole basato sulla rigenerazione del suolo e l’uso di risorse forestali e zootecniche, che permette di ottenere il massimo della sostenibilità e della qualità nutrizionale. Questi nuovi metodi permettono a un campo di incamerare una quantità di CO2 annuale fino a 30 volte superiore a quella assorbita da un campo tradizionale.
Secondo Marc Gràcia, ricercatore del Creaf, «se l’agricoltura rigenerativa prendesse piede si azzererebbero tutte le emissioni dovute alle coltivazioni, il suolo potrebbe trattenere acqua maggiore in quantità superiori al 20 per cento e alla lunga rimarrebbe produttivo senza l’impiego di fertilizzanti». Di fronte a questi risultati viene in mente che, secondo la Fao (Food and agricolture organization), entro meno di 40 anni dovremo produrre il 70 per cento in più del cibo per soddisfare la domanda globale. «Lo scopo dell’agricoltura rigenerativa» dice Gràcia « è stimolare la fertilità del suolo e la biodiversità così da aumentare la produzione con il solo utilizzo di risorse naturali. Significa eliminare sistemi di aratura che rompono la struttura del suolo, mantenere intatta la copertura naturale della vegetazione non lasciando il terreno esposto e prevenendo l’erosione, combinare la diversità delle piante coltivate e pianificare l’uso». Forse entro il 2050, si sta preparando per tutti noi, un futuro da agricoltori, e non solo un mondo di robot e intelligenza artificiale.
