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Così l’Italia spreca i suoi rifiuti preziosi

Così l’Italia spreca i suoi rifiuti preziosi

All’estero tv e cellulari esausti sono considerati letteralmente una miniera d’oro per i metalli più o meno pregiati che contengono. Nel nostro Paese, invece, sono soltanto uno scarto che spesso non viene neppure riciclato. Con danni enormi per l’ambiente.


Da quando c’è il passaggio al nuovo digitale, nell’impianto Amiat Iren di Volpiano sono raddoppiati i televisori eliminati, alcuni addirittura nuovi. Basterebbe aggiungere un decoder per allungarne la vita ma il consumismo tecnologico non ammette queste piccole accortezze. L’impianto piemontese recupera plastiche e metalli dai Raee, i rifiuti elettrici e elettronici. È un modello unico in Europa perché da poche settimane si è dotato di un robot a intelligenza artificiale, in grado di smontare in un’ora 40 monitor mentre altrove, a mano, non si superano i 15. Tv e computer sono una miniera di materie preziose. «Si possono ricavare fino a 10 plastiche diverse ma anche metalli quali alluminio, acciaio, ferro e poi oro, argento, palladio e rame, estratti dalle schede elettroniche. Dal trattamento dei Raee riusciamo a recuperare circa il 90-95 per cento dei materiali» spiega Alessandro Ronco, responsabile dell’impianto di Volpiano. «Alcuni arrivano ancora imballati perché le case produttrici se ne liberano per far posto ai nuovi modelli». Le plastiche di cui sono ricchi vengono triturate, suddivise e vendute ad aziende per successive lavorazioni.

A completare la filiera però manca ancora un passaggio. Le schede di memoria dei pc, una volta estratte, sono spedite in Nord Europa, perché in Italia mancano strutture specializzate per ricavare i metalli preziosi. Uno spreco enorme per la nostra economia. Inoltre, considerando che alcune materie prime in natura si stanno esaurendo, chi è in grado di recuperarle attraverso il riciclo si aggiudica una fetta importante di mercato. Iren, come anticipa a Panorama, ha un progetto che si dovrebbe realizzare in Valdarno per un impianto, il primo in Italia, capace di recuperare tali materiali ad alto valore.

Sono realtà isolate. Non perché non ci sia la tecnologia ma per gli ostacoli posti dai pregiudizi ambientalistici, dai veti delle autorità locali e dalle lunghe pratiche burocratiche. Alcuni impianti Iren, in fase di autorizzazione, hanno avuto una lunga storia di ricorsi. Il via libera arriva dopo attese di anni e nel frattempo si perde competitività.

È come buttare via un tesoro. Una tonnellata di telefoni cellulari scartati è più ricca d’oro di una tonnellata del minerale da cui si ricava il metallo prezioso. In un milione di telefoni cellulari ci sono 24 chili d’oro, 16 mila di rame, 350 di argento e 14 di palladio, risorse che potrebbero essere recuperate e restituite al ciclo produttivo. E ciò che non si ricicla va ricavato a costi sempre più alti. Secondo il Global E-waste Monitor 2020, nel 2019 sono stati generate 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, con un aumento del 21 per cento rispetto al 2018. Solo il 17,4 per cento è stato riciclato e quindi una grande quantità di metalli come oro, argento e rame è andata dispersa o bruciata. Se si continua così, entro il 2030 i rifiuti elettronici raggiungeranno i 74 milioni di tonnellate con danni enormi all’ambiente.

Nel report si legge che 98 milioni di tonnellate equivalenti di anidride carbonica sono state rilasciate nell’atmosfera a causa del riciclaggio «non in conformità» di frigoriferi e condizionatori d’aria. Uno studio realizzato da sette organizzazioni delle Nazioni Unite insieme al World Economic Forum azzarda un calcolo: 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici gettati a livello mondiale ogni anno equivalgono a 62,5 miliardi di dollari, ossia poco meno del Pil di un Paese come il Lussemburgo. Ecco il grande spreco. Si legge anche che «i Raee crescono ogni anno di 2 milioni di tonnellate, circa il 3-4 per cento, a causa dei livelli di consumo più elevati (+3 per cento annuo), del ciclo più breve di vita dei prodotti e delle opzioni di riparazione limitate». Secondo le stime, in Europa, su 72 articoli elettronici presenti in una famiglia media 11 non sono più in uso o sono rotti.

Questo discorso vale per tutti i rifiuti. Secondo un’analisi della Commissione Ue, ogni europeo produce ogni anno 5 tonnellate di spazzatura. Solo il 38 per cento è avviato al riciclo. È una realtà dovuta all’incapacità e all’inefficienza nel gestire localmente i rifiuti, cui si accompagna la resistenza alla costruzione di impianti per lo smaltimento. Così si preferisce esportarli in Paesi dove il riciclo è un business, realizzato sfruttando la manodopera e senza attenzione all’ambiente. È il caso della Cina che fino a gennaio 2021, quando il governo di Pechino ha detto stop, era la discarica del mondo. Ora il gigante asiatico sfrutta gli scarti prodotti nei propri confini, con un sistema di economia circolare.

Il posto della Cina è stato occupato immediatamente dalla Turchia che è diventata il principale Paese importatore dalla Ue. Secondo i dati Eurostat, nel 2020 ha ricevuto 13,7 milioni di tonnellate rifiuti, più del 40 per cento di quelli portati al di fuori dalla Ue. Al secondo posto c’è l’India, che accetta 2,9 milioni di tonnellate. Tra le principali destinazioni, Svizzera, Norvegia, Indonesia e Pakistan. Il paradosso è che si spendono soldi per esportare ciò che altrove viene utilizzato per ricavare materie da riciclare o produrre energia che poi siamo costretti a importare. La Campania, per esempio, spenderebbe ogni anno 45 milioni per esportare rifiuti, in alcuni casi anche all’estero e fuori dalla Ue. Solo Roma sborsa la cifra di 170 milioni di euro. Durante il mandato di Virginia Raggi sono stati spediti negli impianti di trattamento di altre città un milione e mezzo di scarti. Ma guai a parlare di termovalorizzatori.

«Stiamo dissipando fonti d’energia. Le aziende energivore, come i cementifici, hanno bisogno di temperature elevate e di un combustibile che si potrebbe ricavare dai rifiuti. In Germania la sostituzione del fossile con il combustibile che deriva dalla plastica non riciclabile è al 70 per cento, in Italia è meno del 20» afferma Antonello Ciotti, vicepresidente di Corepla, il Consorzio per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi di plastica. «Le autorizzazioni impiegano anni ad arrivare ma la tecnologia va più veloce della burocrazia. La normativa europea sul riciclo della plastica è diventata complessa e pone tanti paletti. Per non parlare delle polemiche ambientaliste sui termovalorizzatori».

Eppure, come sottolinea l’a.d. di Iren Ambiente Eugenio Bertolini, «la costruzione di impianti di trattamento e valorizzazione energetica dei rifiuti è fondamentale per compiere il passaggio della transizione energetica. Ma spesso l’iter di realizzazione è molto lungo ed ulteriormente rallentato da ricorsi o manifestazioni del fenomeno Nimby (Not in my back yard, “Non nel mio giardino”, ndr)». Senza trascurare una nuova sindrome che colpisce i politici locali, quando in situazioni delicate preferiscono non prendere decisioni. È il fenomeno Nimto, Not in my terms of office, ovvero «non durante il mio mandato elettorale». Intanto, altrove, il business dell’energia e dei minerali estratti dai rifiuti, è un motore economico.

Nell’èra dell’ultra fast fashion cinese

Fenomeno Shein, l’ecommerce dalle turbo-produzioni di nuovi modelli a prezzi stracciati, amato dai ragazzi. Con buona pace della sostenibilità.

di Massimo Castelli

Cinque, sette, anche 10 mila nuovi oggetti al giorno venduti per pochi spiccioli in oltre 150 Paesi, e con consegne super rapide. Milioni di giovani e giovanissimi fan sparpagliati per il mondo ma uniti dai social network. Per non parlare di un valore di mercato da far scomparire i colossi della moda. Nessuno può fermare il successo dell’azienda cinese di ecommerce Shein (la pronuncia corretta è «sciin», che significa «il suono della speranza»), valutata 100 miliardi di dollari, con incassi che sfiorano i 16 miliardi e una crescita media annua del 57 per cento. Se il «fast fashion» (abbigliamento low cost di qualità discutibile e dal veloce riassortimento) è un problema riconosciuto per il suo impatto ambientale, Shein alza ancora l’asticella e disintegra ogni remora green con il suo potente modello di business ormai definito «ultra-fast fashion». Il suo segreto è la tecnologia. Se l’azienda nata nel 2008 a Nanchino come ecommerce di abiti da sposa è oggi tra i campioni dell’export del Dragone, lo deve alle sue capacità di abbinare «big data» e nudo lavoro umano.

Il suo algoritmo gestisce l’intero processo di ideazione, produzione e distribuzione dei prodotti. Setaccia i social network per captare quali siano i nuovi stili desiderati dai più e li trasmette a un team di designer (centinaia di persone, a quanto si sa) che li rielabora rapidamente e invia i progetti a una moltitudine di produttori «conto terzi» che realizzano piccole quantità dell’oggetto in questione (dall’identificazione della tendenza al prodotto confezionato passerebbero appena tre giorni). Via via che l’oggetto ha un riscontro commerciale, l’intelligenza artificiale «ordina» di incrementarne la produzione, che si interrompe quando la richiesta deflette. È così che migliaia di novità giungono quotidianamente nella «vetrina» virtuale di Shein (app e sito), con il 70 per cento dei prodotti in vendita che avrebbe meno di 3 mesi. Ci si trova di tutto. Posate e bikini, unghie finte e scarpe, lingerie e scolapasta, lenzuola e detergenti per la pelle, tiragraffi per gatti e parrucche di capelli umani…

I prezzi sono stracciati: la bigiotteria si trova a meno di 50 centesimi, gli occhiali a partire da 3 euro, le T-shirt da 2 euro. Business principale è l’abbigliamento, proposto in un caleidoscopio di modelli (frequente l’accusa di copiare spudoratamente altri brand) che vanno incontro ai gusti sempre mutevoli delle masse. E per individuarli, dicevamo, si lega all’altro fenomeno del momento: l’altrettanto cinese TikTok, app che vive di video brevissimi, fonte di emulazione mondiale di gesti e di look. Soprattutto con l’hashtag #sheinhaul («il traino di Shein»), le influencer quanto le ragazze «qualunque» si mostrano spacchettare o provare i nuovi capi. Non a caso Shein è chiamato «il TikTok dell’ecommerce».

Il fenomeno dunque fa breccia nella Generazione Z, quella che ha sfilato per Greta e avrebbe dovuto assimilare il messaggio della sostenibilità a ogni costo (per non dire delle condizioni di lavoro nella fabbriche, per le quali si è parlato di schiavitù). Ma nessun altro offre alle tasche leggere dei ragazzini una varietà pressoché infinita di modelli ultra low cost, identici a quelli che vanno di moda. E il discorso vale anche per l’Italia, sebbene l’azienda non abbia fornito a Panorama i dati nazionali di vendita per non meglio specificati «motivi di privacy».

Ma Shein impazza. «Perché dovrei spendere 50 euro per una giacca usata se la posso avere per 15 su Shein?» spiega Allegra C., milanese, 16 anni e una ventina di prodotti Shein nell’armadio. «Tra le ragazze della mia età i loro top da 2 euro e le tutine sono un must. Il materiale è abbastanza scadente, però ci sono tutti gli stili che trovo in giro, la taglia che arriva è sempre affidabile e costa praticamente nulla, meno di Zara e H&M, quindi lo puoi mettere anche solo una volta e se non ti piace lo butti». L’effetto sull’ambiente di così tanto poliestere? Difficilmente calcolabile. In barba alla Commissione europea, che ha chiesto la fine del fast fashion per il 2030.

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