Ci sono effetti collaterali della guerra in Ucraina che possono avvantaggiare l’occidente ma soprattutto la Cina: la Russia sta riducendo il suo livello di influenza nell’Asia centrale, dove le altre potenze militari presenti, seppure minori per capacità, stanno imparando che le prestazioni militari russe sono ben più limitate di quelle sbandierate fino a pochi mesi fa. Quelle sulle quali si basava però la strategia di esportazione delle armi. Ed anche se oggi il Cremlino cerca disperatamente di contrastare gli sforzi dell’Occidente per isolarlo diplomaticamente sulla scena globale, Mosca sembra perdere terreno nell’unica regione nella quale, fino a poco tempo fa, contava più di ogni altra nazione. Infatti, nonostante i loro significativi legami economici e politici con la Russia, nessuno dei cinque paesi dell’Asia centrale – Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan – si è schierato con la Russia sulle risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano l’invasione dell’Ucraina, ed anzi hanno espresso grande preoccupazione per possibili effetti di destabilizzazione che potrebbero verificarsi nei loro territori, offrendo così una chiave di lettura della guerra Mosca-Kiev che in occidente ci sfugge: Putin ha invaso una nazione ex-sovietica, quindi parte della sua storia, creando un precedente pericoloso anche per questi Paesi. E certamente gli scarsi risultati fin qui ottenuti in Ucraina hanno dimostrato che la Russia non è più il potente guardiano militare dell’Eurasia come ha cercato di far credere fino alla scorsa primavera.
Così cominciano ad apparire i primi segnali che indicano come le nazioni “-stan” non siano più così contente di rimanere nell’orbita russa come una volta, seppure non tutte mostrino questa tendenza nello stesso modo. Se prendiamo per esempio il Kazakistan, questo ha fermamente rifiutato di riconoscere le regioni separatiste dell’Ucraina dopo il referendum russo, e rifiutandosi di espellere l’ambasciatore ucraino dal suo territorio ha fatto infuriare i diplomatici russi. Il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev ha ricordato in pubblico la repressione avvenuta nel suo Paese in epoca sovietica e sta rafforzando i legami con la Cina perché conscio del fatto che oggi Mosca non sarebbe in grado di supportare le richieste della sua Difesa nel suo processo di ammodernamento.
Agli analisti non è neppure passato inosservato il fatto che durante la riunione dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) tenutasi a Samarcanda, in Uzbekistan, quasi due mesi fa, Mirziyoyev abbia voluto salutare personalmente il presidente cinese Xi Jinping al suo arrivo mentre a ricevere Putin ha inviato il suo subalterno, che ha costretto il presidente russo ad aspettare insieme con i presidenti di Turchia e Kirghizistan. A peggiorare la situazione ci sono poi le conseguenze degli scontri avvenuti tra Armenia e Azerbaigian e quelli al confine tra Kirghizistan e Tagikistan, per i quali Mosca non ha mosso un soldato né ha tentato una vera mediazione. Ammettendo silenziosamente di essere tanto concentrata su quanto avviene in Ucraina da non potersi permettere altre campagne.
C’è poi l’economia: la dipendenza commerciale da Mosca delle nazioni dell’Asia centrale è ancora molto forte, senza le importazioni, il lavoro stagionale offerto da Mosca e la partecipazione a commesse importanti, il loro Pil si ridurrebbe al punto da trascinare in recessione le loro delicate e fragili economie. Le sanzioni internazionali e i divieti di esportazione imposti all’economia russa, di fatto si stanno ripercuotendo anche su queste nazioni, che seppure abbiano fin qui dimostrato una certa capacità di reazione, presto dovranno fare i conti con gli effetti a lungo periodo come inflazione, aumento dei prezzi dell’energia e del costo dei generi alimentari, conseguenze della decisione interventista di Mosca. Un ottimo motivo per rivolgere la massima attenzione alle possibilità economiche e commerciali offerte da Pechino.
C’è anche una memoria storica che queste repubbliche non dimenticano: nel 1916, in piena Prima guerra mondiale, le truppe zariste massacrarono 270.000 persone delle regioni centrali dell’Asia per aver osato ribellarsi alla volontà di farle combattere per l’impero russo. La rivolta portò anche all’esodo di migliaia di kirghisi e kazaki in Cina e la Russia non fu in grado di ripristinare l’ordine fino allo scoppio della rivoluzione di ottobre. La chiamano la “tragedia di Urkun” e ora suona come un grande avvertimento associato alla mobilitazione di 300.000 coscritti attivata da Putin: che migranti e minoranze etniche possano ancora essere considerate carne da cannone utile a Mosca. Non stupisce quindi l’esodo in massa di uomini russi verso Armenia, Georgia e altre nazioni, ulteriore motivo di tensione con la Russia perché flussi migratori incontrollati.
