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Xi Jinping, il nuovo Mao

Xi Jinping, il nuovo Mao

Il presidente cinese ha accuratamente pianificato la conquista della supremazia di Pechino e il culto della sua personalità è un elemento decisivo per consolidare un potere globale. Che nei prossimi anni dispiegherà i suoi effetti.


È così potente che l’Oms, per non urtare la sua suscettibilità, ha appena deciso di saltare una lettera dell’alfabeto greco per denominare l’ultima variante del Covid: insomma, è soltanto per un atto di tremebonda piaggeria se la più recente modificazione del virus in tutto il mondo non viene chiamata «Xi», ma «Omicron». Del resto, a 68 anni Xi Jinping è all’apice del potere e per autorità supera ormai di gran lunga qualsiasi omologo politico, compreso il presidente americano Joe Biden.

Da nove anni Xi guida il Partito comunista cinese e da otto presiede la Repubblica popolare che governa con autoritarismo crescente. Oggi è un uomo solo al comando, che ha saputo eliminare ogni avversario, politico ed economico. Ha scompigliato i primi facendone arrestare i caporioni con l’accusa di corruzione. E ha intimorito i secondi decretando, pochi mesi fa, la caduta senza appello di Jack Ma: il geniale fondatore di Alibaba, l’Amazon cinese, aveva mostrato troppa indipendenza e troppo potere, così da un giorno all’altro è finito in disgrazia. L’obiettivo dichiarato di Xi, del resto, è cambiare la Cina confermando la superiorità dello Stato e del Partito, e abolendo ogni forma di «contaminazione culturale» straniera, come l’individualismo o la ricerca personale del successo.

È una lunga marcia che è cominciata tanti anni fa, nella sofferenza. Xi era poco più di un bambino quando suo padre Zhongxun, un ex militare divenuto vicepresidente della Cina sotto Mao Zedong, fu arrestato per eresia politica. Erano gli albori della Rivoluzione culturale, anche il giovane Xi ne subì le frustate: nel 1968, a soli 15 anni, dovette piegarsi all’ignominia dell’epurazione che aveva dannato il padre, e fu spedito nei campi di lavoro.

Da allora, però, Xi ha risalito tutti gli scalini del potere. Dal 2018 è riuscito anche a sopprimere i limiti temporali del suo mandato presidenziale e il prossimo congresso del Partito comunista, nella seconda metà del 2022, lo confermerà alla sua guida per il terzo quinquennio consecutivo. Nella storia della Repubblica popolare, era avvenuto due sole volte: nel 1945 il privilegio era stato stabilito per Mao, il «Grande timoniere», e nel 1981 lo stesso onore era toccato al «Piccolo timoniere» Deng Xiaoping.

Questo farà di Xi il «timoniere massimo» nonché il leader più longevo di tutti i tempi. E qualcosa è già cambiato nell’estetica del cerimoniale cinese, che fin dai tempi degli imperatori è l’ineguagliabile strumento interpretativo delle complesse geometrie del potere. È accaduto alla festa che il primo luglio ha celebrato i 100 anni del Partito, quando Xi si è presentato sulla piazza Tienanmen indossando non il solito abito nero con cravatta rossa: al centro del palco, tra le due ali dell’aristocrazia comunista che l’applaudiva distanziata come mai prima, Xi si è mostrato al popolo infagottato nella stessa uniforme militare, con grandi tasche applicate, che negli anni Sessanta era stata la divisa di Mao.

Il problema, per il mondo intero, è che la Cina di oggi è infinitamente più ricca e aggressiva di quanto fosse la Cina mezzo secolo fa. E lo è anche più di trent’anni fa, quando a Pechino governava Deng, illuminato riformatore dell’economia. La Repubblica popolare del 2021 è potente ed è armata fino ai denti. È bastato che nel 2015 Xi Jinping ponesse come obiettivo quello di sviluppare la competizione sul mare con gli Stati Uniti. Cinque anni dopo, la flotta cinese ha superato quella americana con oltre 360 tra portaerei, incrociatori, sottomarini e altri modelli di navi modernissime, tra i quali molti nuovi e imponenti mezzi d’assalto anfibi che sembrano fatti apposta per la più volte minacciata invasione di Taiwan. E i cantieri continuano a sfornare navi da guerra: nel 2022 Pechino ne avrà almeno 400.

La spesa militare nel Paese asiatico cresce come l’economia. Mentre nel 2020 l’Occidente arrancava sotto i colpi della recessione da Covid, l’anno scorso il suo Pil è stato l’unico al mondo a segnare un +2,3%, e a fine 2021 salirà ancora dell’8%. Nel frattempo la spesa per gli armamenti nel 2021 farà un balzo del 7%, per arrivare a 260-270 miliardi di dollari. È più o meno il doppio del valore del 2012, quando Xi non era ancora al potere. L’Esercito popolare di liberazione è sempre più forte, il leader non lo schiera soltanto nelle grandi parate in piazza Tienanmen, ma lo ha rudemente impiegato contro l’India, una specie di esperimento bellico che va avanti dal giugno 2020: 18 mesi fa, nel silenzio dei media di mezzo mondo, le forze armate cinesi hanno forato il confine nella regione del Ladakh, uccidendo qualche decina di militari indiani, e sono penetrate per molti chilometri nel territorio di Dehli.

Oggi i soldati di Pechino sono ancora lì e mantengono le posizioni. Al Pentagono, proprio in questi giorni, vengono osservate con preoccupazione nuove concentrazioni di truppe impegnate in nervosi movimenti tattici. I comandi statunitensi, da mesi, sono inquieti soprattutto per Taiwan. Sulla costa orientale che guarda verso la vecchia Formosa, Pechino ha accumulato missili e basi di marines. I movimenti avvengono su ordine di Xi Jinping, che ha avviato la sua presa sulle forze armate dal 2010, quando entrò nella Commissione militare del Partito di cui ottenne la presidenza due anni dopo, in quanto leader del Pcc. Da allora continua a ripetere che dopo l’era di Mao in cui «si è rialzata» e dopo l’era di Deng in cui «si è arricchita», la Cina ora «si deve rafforzare».

Fin qui, le esibizioni di forza si limitano al predominio sul Pacifico: di questa strategia, iniziata con il pieno controllo su Hong Kong, oggi fanno parte le crescenti minacce su Taiwan e le continue rivendicazioni sulle isole Spratly, contese alla Malesia e alle Filippine, o sulle isole Paracelso che oggi sono del Vietnam, o sulle isole Senkaku che appartengono al Giappone. Ma la strategia di Xi va oltre, è globale. Nel 2013, appena eletto presidente, aveva detto che la Cina avrebbe avuto una base militare in Africa, e questo è regolarmente accaduto nel 2017. A Gibuti, strategica porta d’ingresso dello Stretto di Aden, la Marina cinese ha piazzato 10.000 uomini e ha appena terminato un molo da 660 metri, destinato a grandi navi e portaerei.

Nell’ultimo Piano quinquennale, varato da Xi nell’ottobre 2020, l’obiettivo della modernizzazione militare dovrà essere traguardato entro il 2035. Ma rappresenterà una tappa ancora intermedia verso il 2049, centenario della rivoluzione cinese. Allora la Repubblica popolare avrà un esercito «che dominerà l’Asia e il Pacifico» e finalmente potrà «combattere e vincere guerre globali». Ovviamente, contro l’unico nemico possibile: gli Stati Uniti. Il tempo, e la preparazione per lo scontro finale, sembrano correre molto più velocemente dei piani. Per quattro anni, pur con molte incongruenze, Donald Trump è parso avere colto la minaccia.

Il suo successore Joe Biden sembra molto meno desideroso di tenere testa al crescente potere di Xi. Il quale infatti può permettersi di proclamare che «chiunque tenterà di intimidirci si romperà la testa sulla Grande Muraglia d’acciaio costruita con il sangue e la carne di 1,4 miliardi di cinesi». Sembra quasi di sentire la voce del leader sovietico Nikita Kruscev, che nel 1956 prometteva agli americani: «Vi seppelliremo».

È vero che poi non è affatto finita così. Ma va detto che Xi, rispetto ai cugini sovietici, ha un’arma in più: ha studiato. Ha dedicato la sua tesi di laurea proprio alle fragilità che, con la grande competizione bellica nella Guerra fredda, hanno determinato il collasso economico e la sconfitta finale del comunismo russo. Xi, una volta, ha spiegato di aver voluto approfondire quei temi «per non fare gli stessi errori». Anche sapere, dopo tutto, è potere.

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