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La scure di XiJinping agita l’oriente

La scure di XiJinping agita l’oriente

Un’ondata di epurazioni e licenziamenti eccellenti ha scosso le fondamenta del potere di Pechino. Una prova che il presidente cinese sta affrontando seri problemi, certamente di tenuta economica. Che potrebbero risolversi con la presa di Taiwan. Scopriremo presto se con le buone o con le cattive.


Accade qualcosa di strano, in Cina. Qualcosa, forse, non sta andando come previsto. E il fioccare di licenziamenti ed epurazioni ai vertici del comando militare ne sarebbero il segnale più evidente. Già: in queste ultime tre settimane, la Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del governo ha fatto una «strage», arrestando e rimuovendo un numero rilevante d’importanti funzionari militari e delle aziende collegate all’apparato bellico. Perché? La «purga» ha colpito chirurgicamente l’élite della difesa strategica del Paese, gettando nella vergogna, tra gli altri, nomi eccellenti quali: Liu Shiquan, presidente del China Ordnance Group; Yuan Jie, presidente della China Aerospace Science and Industry Corporation; Chen Guoying, direttore generale del China Ordnance Equipment Group; Tan Ruisong, ex presidente e segretario della Aviation Industry Corporation of China.

Anche Li Yuchao e Liu Guangbin, nell’ordine comandante e vice comandante delle forze missilistiche dell’esercito, sono stati esclusi forzatamente dall’organigramma dell’alto comando, insieme al commissario politico, generale Xu Zhongbo, e a Wu Ghohua, vice comandante della Forza missilistica dell’Esercito popolare di liberazione, suicidatosi a inizio luglio. Ufficiosamente – come al solito di trasparente in Cina c’è ben poco – si parla di una stretta «anti-corruzione», di cui ha fatto le spese lo stesso ministro della Difesa Li Shangfu: ancor prima di essere rimosso dall’incarico, il 29 agosto, di lui si erano perse le tracce dopo un viaggio compiuto in Russia e, con ogni probabilità, è stato posto agli arresti domiciliari. Una punizione al vertice per dare un segnale contro «la dilagante degenerazione di alti ufficiali che non fanno gli interessi del popolo»?

Può darsi. Ma la vicenda assume altri significati se la si inquadra in un disegno più ampio: aggiungendosi alla non meno misteriosa rimozione del ministro degli Esteri Qin Gang dello scorso mese (l’accusa ufficiale è di avere una relazione extraconiugale…), l’epurazione di Li Shangfu e del suo staff indica movimenti tellurici nel Partito comunista cinese. Il che getta un’ombra su quanto stia realmente accadendo alla corte di Xi Jinping, sempre meno a suo agio con i fedelissimi, in un momento in cui l’economia nazionale preoccupa e cresce il malcontento per l’attesa invasione di Taiwan. Invasione che, secondo rumors non confermati, il leader cinese vorrebbe iniziare già in ottobre o, al più tardi, il prossimo aprile, quando il meteo è considerato più favorevole per la traversata di una flotta. Ed ecco forse una delle ragioni del repulisti: chi non si allinea deve lasciare il comando.

«L’unico che vuole davvero attaccare Taiwan è Xi Jinping» osserva Edward Luttwak, noto analista statunitense, «e la ragione per cui vuole attaccare Taiwan non è ad maiorem Dei gloriam, ma perché è ossessionato dall’idea che il popolo cinese finora è stato incapace di combattere». Come a dire che il presidente cinese cerca la gloria, inebriato dalla riconferma per un terzo storico mandato. O, più semplicemente, cerca nel conflitto una distrazione dalle infauste performance economiche domestiche. In ogni caso, da tutto ciò consegue che chiunque si opponga alla sua volontà, fosse anche muovere guerra a Taiwan, finisce male. La teoria di Xi è nota anche in Occidente. Scriveva Morgan Stanley all’indomani dell’11 settembre 2001: «Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane, e per questa via eliminare i rischi più significativi per l’economia e per il dollaro? La risposta è: un atto di guerra. L’ultima volta che gli Usa hanno registrato un surplus delle partite correnti è stato nel 1991, quando il concorso dei Paesi esteri ai costi sostenuti dall’America per la guerra del Golfo ha contribuito a generare un avanzo di 3,7 milioni di dollari».

Lo schema cinese sarebbe pressappoco il medesimo. Si potrebbero citare in proposito l’ingresso nella Seconda guerra mondiale, attraverso cui gli Usa si risollevarono dalla Grande crisi degli anni Trenta. O la «New Cold War Economy» degli anni Ottanta, che fece di Reagan un Re Mida grazie anche a giganteschi programmi di spesa pubblica per produrre e comprare armi. Il punto è in ogni caso la stretta correlazione tra interventi militari, spesa pubblica e ripresa dell’economia, che rappresenta una costante nella storia economica, non solo degli Stati Uniti, ma in generale per chi ambisce a qualificarsi come una «superpotenza». È davvero questo il piano cinese?

«Le Forze Armate e gli ambienti governativi di Taipei ritengono inevitabile un conflitto con la Cina e sono convinti che l’invasione non sia una questione di “se” ma di “quando”. I vertici militari sono consapevoli che, prima o poi, dovranno difendersi da una aggressione cinese, e si stanno organizzando in vista di una prospettiva del genere» rivela il generale di Corpo d’armata Giorgio Battisti, di ritorno da Taipei. «Solo i risultati delle elezioni presidenziali del gennaio 2024 potrebbero scongiurare, a seconda degli esiti, un futuro bellico nell’Isola ribelle». Tre i candidati in campo: l’attuale vicepresidente Lai Ching-te dello stesso Partito democratico progressista (Dpp) del presidente in carica Tsai, intenzionato a mantenere una spiccata sovranità di Taiwan; l’ex sindaco di Taipei, Hou Yu-ih del Kuomintang (Kmt), fautore invece di un avvicinamento alla Cina; il ricco industriale Terry Gou, con forti interessi economici in Cina, il quale ha promesso che porterà la pace nello stretto di Taiwan nei prossimi 50 anni grazie a rapporti più stretti con Pechino. Se dovessero vincere l’indipendente Gou o l’ex sindaco Hou Yu-ih, Pechino potrebbe riuscire nell’arduo compito di risollevare la Cina dalla peggiore crisi degli ultimi 30 anni, semplicemente annettendo per via pacifica Taiwan, da cui trarrebbe enormi benefici dato il primato tecnologico dell’Isola.

Xi Jinping ne ha bisogno, specie dopo aver messo nel mirino l’industria hi-tech, attaccando colossi in ascesa come Alibaba per timore che il loro potere gli facesse ombra. Col risultato che, anziché assumere 20 mila persone, l’anno scorso ne sono state licenziate altrettante. Così adesso l’industria avanzata cinese si nasconde nel proprio guscio, non cresce più. E la disoccupazione giovanile è balzata al 30 per cento, che per la Cina è un fenomeno inedito e drammatico. Ma è il settore infrastrutturale che nasconde il vero dramma. Ancora Luttwak: «In tutta la Cina ogni ente, misto, privato, comunale, provinciale, regionale, riceve soldi dalla banca di Stato per costruire un ponte. Ora, mentre il primo ponte era necessario, il millesimo no. Negli ultimi cinque anni i cinesi hanno costruito circa 250 aeroporti, ma di questi un centinaio ha un solo volo al giorno. Il terminal delle navi da crociera di Xiamen, costruito per ricevere due grandi navi contemporaneamente, ha appena sei passeggeri, perché esiste già un trasporto locale che funziona.

In tutta la Cina, 550 città sono collegate con treni ad alta velocità, ma ne vengono utilizzati meno della metà. La produttività degli investimenti quindi è scesa a zero. Inoltre, avendo costruito milioni di appartenenti vuoti, adesso l’edilizia civile si è fermata». E se l’economia non cresce, la disoccupazione s’impenna. In questo scenario, se a gennaio i «candidati di Pechino» a Taiwan non dovessero vincere le elezioni, la via per risollevare l’economia potrebbe davvero essere la guerra. Un esempio di quanto avanti sia la pianificazione lo offrono dettagli nel settore missilistico, appena colpito da epurazioni: se un decennio fa la Cina possedeva circa 50 missili intercontinentali, già oggi ne dispone di circa 500 e, si prevede, ne avrà oltre mille entro il 2028. A che cosa serviranno? Secondo i più cauti per ridimensionare la minaccia, considerando la corsa alle armi solo una riedizione della Guerra Fredda. Sono gli stessi che ritengono come la Nuova via della seta ricalibrata verso Oriente renderà più semplice esportare e importare. Un’espansione che permetterà alla Cina di risollevarsi conquistando nuove fette di mercato. Ma c’è chi, come i vertici militari di Taiwan, è pronto a una guerra asimmetrica, per costringere Pechino a desistere dall’invasione.

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