Tra sussidi, contributi e bonus per chi dichiara un Isee basso, in Italia spendiamo 350 miliardi di euro. Per statistica (come nel noto sonetto del poeta romano) sarebbero 6 mila euro a testa, ma il grosso della torta assistenziale va a 25 milioni di persone. Peccato che in questo modo si disincentivi il lavoro, lo Stato incassi sempre meno e a pagare le tasse siano i «soliti noti».
«Me spiego: da li conti che se fanno / seconno le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno: / e, se nun entra nelle spese tue, / t’entra ne la statistica lo stesso / perch’è c’è un antro che ne magna due». Famosissimo sonetto di Carlo Alberto Camillo Salustri, in arte Trilussa, che fece appena in tempo a vedere l’Italia del Piano Marshall, subito dopo la Seconda guerra mondiale.
Allora gli indigenti davvero non mangiavano neanche un pollo, ma oggi osservando da vicino il welfare all’italiana viene da chiedersi chi s’imbandisce i due galletti… La risposta in parte sta nei numeri mentre si dibatte del lavoro povero, della contraddizione tra le cifre dei disoccupati e le offerte inevase, si invocano decreti flussi per importare manodopera (quello deciso di recente è per 82.700 posti), e intanto Cgil, Uil e – meno convinta – Cisl vanno in piazza contro il decreto lavoro varato dal governo, vengono commissariati Inps e Inail e perdono il posto Pasquale Tridico, l’inventore del Reddito di cittadinanza, e Franco Bettoni.
Per guidare la previdenza circola il nome di Concetta Ferrari. La chiamano Lady Inps e il motivo c’è: è il direttore generale per le politiche previdenziali e assicurative del ministero del Lavoro. C’è da rattoppare i bilanci – l’allarme per un buco potenziale di 20 miliardi di euro l’ha dato lo stesso Tridico, generato dal fatto che gli assegni si rivalutano ma i contributi restano fermi – e rimettere in linea di galleggiamento il bastimento delle pensioni. E lei pare la più adatta.
Il welfare all’italiana è in crisi? Partiamo da una cifra: lo Stato dà all’Inps 148 miliardi di euro perché eroghi prestazioni assistenziali. Li ricava dalle tasse. Abbiamo oggi circa 5,6 milioni di persone in povertà assoluta e circa 8,6 milioni in povertà relativa. Quindici anni fa la spesa per assistenza era pari a 78 miliardi, i poveri assoluti erano 2,8 milioni e quelli in povertà relativa poco più di 4,2 milioni. Avendo raddoppiato la spesa assistenziale, si è raddoppiata anche la cifra dei poveri. Ma è una spesa sostenibile? I dati dicono che dal 2012 al 2021 è cresciuta del 20 per cento mentre il Pil si è incrementato di soli 10 punti. Altri miliardi, altre assistenze.
Per i cosiddetti «ammortizzatori sociali», che in molti casi finiscono per essere un incentivo al «non lavoro», si spendono 25 miliardi di euro, cui bisogna aggiungere la massa delle pensioni che ammonta a 240 miliardi. Di questi però circa il 90 per cento sono coperti da contributi. Una cifra avvolta nella nebbia della burocrazia è quanto spendono in assistenza Comuni e Regioni. Nel complesso, il welfare italiano costa 350 miliardi, al netto della spesa pensionistica sostenuta dai contributi. Sono più o meno 6 mila euro a persona, neonati compresi.
Ma questa è appunto la statistica di Trilussa, nei fatti a chi va la fetta più grossa della torta? Per saperlo bisogna rifarsi a un’intuizione del sociologo Luca Ricolfi: «Siamo una società signorile di massa, una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano». A confermarlo ci sono le analisi condotte dal centro studi Itinerari previdenziali. Come spiega Alberto Brambilla, il suo presidente, siamo di fronte a un sistema che disincentiva il lavoro e genera diseguaglianze. «Un esempio illustra meglio di molte elaborazioni sociopolitiche: una famiglia di due genitori e due figli che ha un reddito di 25 mila euro lordi, di Irpef paga 190 euro in media: solo per la sanità, ne riceve 8.280, considerando che questa assistenza costa 2.070 euro a persona. Cui vanno aggiunti 1.550 euro per ogni figlio come spesa scolastica. A fronte di tasse quasi zero, riceve solo per scuola e sanità più di 11 mila euro, cui vanno aggiunti a parte gli oltre 100 bonus destinati a chi ha Isee basso».
Chi sta sotto 15 mila euro riceve contributi per l’affitto, l’assegno unico per i figli (nel primo quadrimestre è già costato 7,4 miliardi) il bonus trasporti, il bonus occhiali, il bonus latte… E poi c’è l’«effetto Naspi», ovvero la Nuova assicurazione sociale per l’impiego. «Una pratica purtroppo diffusa» osserva Alberto Brambilla «fa sì che si lavori due anni per poi starsene un anno a casa in Naspi con l’80 per cento dello stipendio e i contributi previdenziali comunque assicurati. C’è chi lavora 8 mesi e ne prende altrettanti». Siamo al paradosso che si può andare in pensione con tutti i contributi versati avendo lavorato metà del tempo. È chiaro che con un sistema così concepito non c’è alcun incentivo al lavoro e questo spiega, in parte, il gap esistente tra l’Italia e il resto d’Europa. Da noi lavorano circa 23,3 milioni di persone, quelle in età da lavoro sono oltre 36 milioni (in Francia gli occupati sono 34 milioni). «Abbiamo un tasso di occupazione del 60,3 per cento, siamo ultimi per Eurostat e penultimi nell’Ocse, siamo però primi e di gran lunga per Neet – ragazzi che non studiano e non lavorano – con un tasso del 25 per cento contro una media europea del 15» continua Brambilla. «Il sistema è tale per cui conviene stare sotto i 15 mila euro o sotto i 25 mila per ottenere il massimo di quei quasi 6 mila euro che lo Stato destina a ogni cittadino. Così s’incentiva il lavoro nero, siamo di gran lunga in testa in questa classifica secondo Eurostat».
Come osserva il giuslavorista Pietro Ichino: «C’è anche il mancato incontro offerta-domanda: manca un luogo dove ci si possa informare su quegli enormi giacimenti occupazionali inutilizzati e sui percorsi formativi che possono darvi accesso». C’è poi il mantra secondo cui gli immigrati lavorano al posto degli italiani, e pagheranno le pensioni di chi si è ritirato dal lavoro. Sui 5,6 milioni di poveri assoluti il 35 per cento sono immigrati: oltre uno immigrato su tre. Quando si sostiene che i salari sono troppo bassi – l’Italia è il solo Paese europeo dove le retribuzioni in vent’anni sono calate del 2,9 per cento a fronte di un aumento in Germania che sfiora il 40 per cento – vi sono due elementi da tenere in conto: vi è un’ampia platea di assistiti che hanno un’occupazione aggiuntiva «clandestina», vi è nell’occupazione irregolare una concorrenza al ribasso. Senza contare la caduta complessiva di produttività.
Su 23,3 milioni di occupati i dipendenti pubblici sono 3,3 milioni (il 14 per cento) la cui produttività è bassissima poiché la loro attività produce scarso «valore aggiunto»; il 74 per cento sono gli impiegati nei servizi, dove la produttività è comunque bassa; il 12 per cento degli occupati, circa 2,8 milioni, lavora nella manifattura e ha un tasso di produttività che li colloca invece ai vertici alla classifica europea. È singolare che vi sia una simmetria con il fisco: il 12,9 per cento degli italiani paga il 60 per cento dell’Irpef (nel 2021 ha superato i 200 miliardi, quasi il 12 per cento del Pil), con un reddito superiore a 35 mila euro lordi. Sono anche quelli che alimentano i 37,2 miliardi di spesa sanitaria privata. In questi giorni vanno di moda in tante città italiane gli studenti universitari che dormono nelle tende per protestare contro il caro affitti. Una famiglia con Isee – l’indicatore della situazione economica – di 80 mila euro ne paga sui 12 mila per mandare un figlio all’università, con Isee di 25 mila euro e un altro figlio a carico, l’istruzione universitaria è gratis.
Sottolinea Brambilla: «È ragionevole sostenere che chi guadagna 35 mila euro, al netto ha in tasca meno di chi ne prende 20 mila. È evidente che così si spinge verso il lavoro nero, ma è anche evidente che la politica non capisce questi numeri. Elly Schlein, e non solo lei, insiste per tassare le rendite finanziarie non comprendendo che c’è un 20 per cento d’italiani che comprando titoli di Stato tengono in piedi la baracca. E quei titoli li comprano dopo aver già pagato tasse e contributi, sulla rendita preleviamo il 26 per cento. Anche questo governo cade su un luogo comune: orientare tutti i sostegni sotto i 35 mila euro senza riformare il sistema. Ne dico una per tutte: manca una banca dati dell’assistenza. Riuscendo a capire chi non ha diritto ai vari trattamenti si potrebbero recuperare, secondo le nostre stime, 50 miliardi. Matteo Renzi è arrivato al 43 per cento ed è caduto, la Lega al 34 per cento ed è stata ridimensionata, succederà anche a Meloni se non cambia questo tipo di spesa pubblica: così le promesse sono insostenibili. Un esempio è il taglio del 7 per cento fatto sui contributi. Alla fine lo Stato paga tre volte: ora perché incassa meno, domani quando i lavoratori andranno in pensione perché avranno soldi che in realtà non hanno versato, e infine perché sarà erogata comunque quest’assistenza».
