Anche quest’anno, la fantomatica tassa, varata in Italia nel 2018, non sarà pagata. A versare il 3 per cento dei loro ricavi dovrebbero essere i colossi della Rete, ben protetti nei loro paradisi fiscali. Fino a ieri venivano difesi dall’amministrazione americana. Oggi, però, nel nuovo gioco diplomatico Usa-Europa qualcosa potrebbe cambiare.
Nulla da fare. Anche nel 2021 la Web tax italiana resterà nel cassetto e non frutterà un euro. A metà marzo il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha rinviato il pagamento dell’imposta più citata e meno produttiva nella storia del Paese. Varata nel dicembre 2018 dal governo grillino-leghista di Giuseppe Conte nella Legge di bilancio per l’anno successivo, questa è la terza volta che la tassa viene rinviata: per la precisione al 16 maggio. Ma tutti in realtà scommettono che non se ne farà nulla.
Della Web tax in realtà si parla a vuoto da tempo, e non solo in Italia. Molti Stati, soprattutto europei, ogni anno non riescono a incassare che pochi euro dai colossi del web come Google, Amazon, Facebook e Apple, perché queste società hanno la sede ufficiale in blindatissimi paradisi fiscali: Irlanda, Singapore, Olanda, Malta… Secondo lo studio più recente condotto sull’elusione fiscale delle prime 15 case mondiali del web, condotto da Mediobanca nel 2020, oltre metà dell’utile di queste società (che nel 2019 hanno fatturato in totale mille miliardi di dollari) è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con un risparmio globale di 46 miliardi nel periodo 2015-2019.
E anche l’Italia perde ogni anno cifre colossali. Nessuno conosce con precisione quale sia il dato dei profitti realizzato entro i nostri confini dai giganti dell’online, ma si sa che nel 2019 le filiali italiane dei primi 15 tra loro avevano fatturato 3,3 miliardi di euro, mentre in tasse hanno versato appena 70 milioni. Amazon ha pagato 10,9 milioni, seguita da Microsoft con 16 milioni, da Google con 5,7 e da Facebook con 2,3.
Nel nostro Paese, la Web tax dovrebbe riguardare le società che operano via Internet, e che fatturino globalmente oltre 750 milioni di euro: dovrebbero versare il 3 per cento dei ricavi realizzati sul mercato italiano, se questi superino i 5,5 milioni. L’imposta, però, non è mai entrata in vigore un po’ per le pressioni dell’amministrazione statunitense – che ovviamente difende le società, che sono quasi tutte americane – e un po’ perché l’Unione europea da tempo sta cercando di approvare una sua Web tax, e Roma aspetta che Bruxelles si dia una mossa.
Va detto che l’Italia non è sola, in questa incapacità di esigere quanto le spetterebbe. Nell’autunno 2020 anche il governo francese aveva annunciato la sua «Tax Gafa» (dalle iniziali, per l’appunto, di Google, Amazon, Facebook e Apple). Come l’Italia, anche Parigi voleva imporre un’imposta del 3 per cento sui ricavi realizzati nel Paese: le multinazionali interessate dalla Tax Gafa avrebbero dovuto fatturare globalmente almeno 750 milioni di euro, 25 dei quali realizzati in Francia. A oggi, però, anche la tassa francese non è mai entrata in vigore.
Tutto ciò avviene anche perché, a livello sommerso, continuano le pressioni americane affinché nessuno Stato straniero faccia partire la sua Web tax. Tra novembre e dicembre, mentre l’amministrazione di Donald Trump era agli sgoccioli, il dipartimento americano del Commercio ha stabilito che la Web tax italiana, per quanto sospesa, è «irragionevole e discriminatoria», in quanto «limita la libertà commerciale americana». Ma anche sotto l’amministrazione democratica di Joe Biden poco è cambiato, in questo, difatti la Casa Bianca ha continuato a fare pressioni. Nel marzo 2021 il Dipartimento del commercio ha pubblicato una lista di decine di prodotti made in Italy, dalle cravatte agli occhiali, su cui sono già pronti dazi del 25 per cento come ritorsione se la nostra Web tax dovesse finalmente essere applicata.
Quel che sotto Biden è cambiato, invece, è l’atteggiamento americano sul fisco nel suo insieme. Là dove Trump nel 2017 aveva tagliato l’aliquota massima per le imprese dal 35 al 21 per cento, per favorire la ripresa economica e una drastica riduzione della disoccupazione, il suo successore da poco ha deciso che le tasse societarie torneranno al 28 per cento per finanziare un ciclopico programma di sussidi e di lavori pubblici.
A metà aprile, il suo ministro dell’Economia, Janet Yellen, ha annunciato ai governi del G20 una proposta rivoluzionaria sul fisco globale: quella di cominciare a discutere di una «global minimum tax», cioè un’aliquota minima al 21 per cento sui profitti delle imprese da imporre a tutti gli Stati a livello mondiale. L’obiettivo dichiarato del piano americano è tagliare le unghie ai paradisi fiscali per riportare a casa migliaia di miliardi di tasse che ogni anno vengono eluse grazie alla calda ospitalità degli Stati a fiscalità ridotta, e non soltanto quelle dei colossi del web. Oggi, del resto, si stima che il 40 per cento dei profitti delle multinazionali mondiali sia «parcheggiato» in paradisi fiscali. Per convincere gli altri governi a spingere per la sua «global minimum tax», però, Yellen ha dichiarato che gli Stati Uniti «non vogliono più essere un porto franco per i colossi digitali».
Insomma, Washington oggi potrebbe mettersi a discutere sulla Web tax. E infatti Yellen ha accennato alla possibilità di una ripresa dei negoziati in sede Ocse, dove una trattativa, iniziata nel 2015, era stata bloccata sempre da Trump nel giugno 2020, quando pareva che la Commissione europea stesse per varare una sua tassa sui colossi del web. Un anno fa le minacce americane di pesanti ritorsioni commerciali avevano frenato il tentativo di Bruxelles, proprio come avevano fatto su Francia e Italia. Da qualche mese, però, la Commissione europea è tornata a lavorare all’ipotesi di una tassa al 3 per cento sui ricavi generati negli Stati dell’Unione da attività digitali realizzate da imprese con un fatturato mondiale oltre i 750 milioni di euro, almeno 50 dei quali realizzati in Europa. Lo schema, insomma, è lo stesso applicato da Francia e Italia.
Per riassumere: fino a ieri gli Stati Uniti hanno minacciato chiunque, in Europa, provasse a imporre la Web tax ai loro colossi informatici; oggi, a sorpresa, annunciano invece che potrebbero cambiare idea in cambio dell’appoggio dell’Europa a un ridimensionamento dei paradisi fiscali.
È un gioco diplomatico che fa parte di una più ampia strategia dell’amministrazione Biden, che punta al riavvicinamento con Bruxelles in funzione anticinese e antirussa. Ora tutto dipende dalla sponda europea. Se son rose fioriranno, ma è certo che un’intesa potrebbe portare a una maggiore equità fiscale. Insomma, più o meno tra un anno la Web tax potrebbe essere una realtà non solo italiana, ma europea e americana. Forse. Chissà.